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CONSIGLIO DIRETTIVO ALI DI SCORTA

Ultimo Aggiornamento: 07/04/2013 09:18
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14/07/2009 10:17

ALI DI SCORTA INSIEME AL MINISTERO DELLA DIFESA ....................
Da domenica 12 luglio 2009 , Ali di Scorta ha degli amici in piu';infatti tramite il vice presidente DI BERNARDINI MARIO , del Direttivo del circolo dell'associazione dipendenti del min. della difesa (ass. iscritta al n°169/2002 del reg. persone giuridiche ,D.P.R. 361/2000),il sottoscritto ha avviato un rapporto di amicizia e conoscenza per la ns/vs Organizzazione ONLUS .

Il tutto si e' svolto allo stabilimento balneare di fregene , lungomare di levente,50 e ci e' stata ampia disponibilita' per diffondere la voce dei bambini malati e loro genitori .

Al piu' presto saremo inseriti nel loro sito www.il-circolo.org e il prossimo anno sulla guida dei soci CRDD segredifesa dei dipendenti .

Un altro passo e' stato fatto...........
mauro cicchinelli
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APPUNTAMENTO IL 23 LUGLIO 09


Oggetto: Fwd: Incontro 23 luglio 2009 Ricevuto il: 20/07/09 17:10


Meeting XVIII e XIX municipio




Info - www.volontariato.lazio.it <info@volontariato.lazio.it> wrote ..
> Gentili,
> prima della pausa estiva, volevamo ricordarvi l'appuntamento del 23 Luglio alle
> ore 17:00 c/o la Biblioteca all'interno del Parco (ingresso Via della Pineta Sacchetti,
> 78), per condividere le nuove proposte e fare un pò il punto della situazione.
>
> Per l'occasione sarà fatto insieme un sopralluogo dell'area dove si svolgerà la
> manifestazione.
>
> In allegato trovate la bozza del programma.
>
> Vi aspettiamo numerosi.
>
> I Centri di Servizio per il Volontariato nel Lazio Cesv-Spes
> Num. Verde 800633563





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21/07/2009 09:25

BOZZA DEL PROGRAMMA

MEETING XVIII e XIX MUNICIPIO
BOZZA DI PROGRAMMA


Venerdi 18 settembre 09 dalle ore 17,00 alle ore 23,00
Sabato 19 settembre 09 dalle oer 18,00 alle ore 24,00
Domenica 20 settembre 09 dalle ore 10,00 alle ore 23,00
VENERDI
-spazio convegno su telematiche relative alle politiche sociali
-spettacolo dal palco (concerto , proiezione film)
SABATO
-stand
-spettacolo teatrale clown (associazione A . Tudisco)
-maratonina con i cani (ass. a 6 zampe)
-anziani ,lezione di sicurezza (ass. vigile amico)
-spettacolo teatrale,con la partecipazione dei ragazzi di casal del marmo (breve introduzione tematiche carcere,etc.) (ass. Adynaton)
DOMENICA
-Laboratori lucidi per bambini (ass. A.Tudisco)
-caccia al tesoro (ass. protezione civile)
-allestimento area dedicata ai bambini x arrampicata (ass. protezione civile)
-simulazione intervento x incidenti stradali (ass.vigile amico)
-artisti di strada
-brevi interventi dal palco ad opera delle associazioni interessate
-proiezione di spot
-chiusura meeting

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28/07/2009 17:33

NOTIZIE MEDICHE "ALI DI SCORTA"
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I tumori cerebrali del bambino


I tumori cerebrali dell’età pediatrica continuano a rappresentare una delle più difficili sfide terapeutiche. Questi tumori sono stati a lungo accompagnati -ed in parte ancora lo sono- da un diffuso pessimismo poiché nell’opinione generale essi erano associati ad una morte precoce o a sopravvivenze gravate da significative alterazioni dello sviluppo psico-motorio. Tale atteggiamento negativo da parte dei familiari e dei sanitari, appariva giustificato da varie ragioni come, ad esempio, le difficoltà diagnostiche di questo tipo di lesione, la loro natura eterogenea, da forme benigne, ai confini della malformazione congenita, a forme estremamente aggressive, i limiti del trattamento chirurgico, la relativa inefficacia della chemioterapia, ed infine i danni conseguenti l’applicazione della radioterapia su un cervello in via di maturazione.
Per certi aspetti le difficoltà appena descritte sussistono ancora ma la loro relativa gravità è in genere diminuita così da poter permettere oggi una valutazione più consapevole del problema.
I progressi delle tecniche di indagine morfologica dell’encefalo (ecoencelografia, tomografia computerizzata, risonanza magnetica) hanno reso la diagnosi precoce dei tumori cerebrali infantili possibile in molti casi. Il risultato più evidente è stato lo spostamento verso le prime età dell’infanzia dei pazienti che vengono trattati, con ormai oltre il 10% di questi operati nei primi 12 mesi di vita (oltre il 13% nella casistica di oltre 700 tumori cerebrali pediatrici operati presso l’Unità Operativa di Neurochirurgia Infantile del Policlinico A. Gemelli).
Paradossalmente, l’abbassamento dell’età della diagnosi e quindi del trattamento non si è associata ad un peggioramento dei risultati ma, al contrario, ad un aumento delle sopravvivenze a lungo termine ed a un miglioramento, nei bambini sopravvissuti, della qualità di vita. Il riconoscimento precoce del tumore si è infatti tradotto in operazioni effettuate in bambini in condizioni generali ancora soddisfacenti e specificatamente per i neonati ed i lattanti, nell’indirizzo dei pazienti verso strutture di neurochirurgia e neurooncologica squisitamente pediatriche, verso cioè strutture di maggiore esperienza.
L’affinamento delle tecniche operatorie è stato nelle ultime due decadi straordinario, parallelamente all’esplosione tecnologica registrata in altri campi. L’introduzione del microscopio operativo, dell’aspiratore ad ultrasuoni e recentemente dalla neuronavigazione, ha permesso al neurochirurgo di realizzare operazioni impensabili solo alcuni anni fa, di aggredire lesioni in sedi tradizionalmente considerate inaccessibili, risparmiando al massimo l’integrità delle strutture nervose adiacenti. Parallelamente allo sviluppo della neurochirurgia, un contributo enorme al miglioramento dei risultati è stato dato dal contemporaneo sviluppo delle tecniche di anestesia e di assistenza intraoperatoria e di terapia intensiva.
E’ evidente che i progressi appena descritti abbiano interessato soprattutto le neoplasie cerebrali di tipo benigno, quelle cioè la cui guarigione dipende essenzialmente dall’atto chirurgico. L’incidenza di tali tumori è particolarmente alta in età pediatrica, anche se con significative variazioni nei neonati, nei lattanti e nei bambini più grandi decisamente maggiore rispetto all’età adulta. L’astrocitoma, il tumore cerebrale più comune si presenta, nella popolazione pediatrica, nella maggior parte dei casi nella sua forma di minore aggressività, con scarsa tendenza alla recidiva, dopo l’asportazione chirurgica. Tipici del bambino sono altri tumori benigni, come i teratomi o i papillomi. I teratomi, in pratica errori dello sviluppo dell’embrione, possono costituire quasi la metà dei tumori cerebrali riscontrati alla nascita, un terzo dei tumori riconosciuti nei primi due mesi di vita ed il 5% di quelli del primo anno. I papillomi rappresentano il 10% delle neoplasie operate nei primi due anni di vita. Rispetto ai tumori benigni, quelli maligni si sono avvantaggiati solo in minore misura dello sviluppo tecnologico, ma anche essi presentano oggi una prognosi migliore del passato. La rimozione chirurgica totale o subtotale di questi tumori si è dimostrata influenzare positivamente la percentuale di sopravvivenza a lungo termine, anche se purtroppo l’esito finale rimane ancora oggi infausto nella maggioranza dei casi. Per questo tipo di tumori la speranza di guarigione resta ancora basata sullo sviluppo di adeguati trattamenti chemioterapici ed immunologici e di più raffinate modalità di somministrazione della radioterapia (radio-chirurgia, radioterapia conformazionale). Tuttavia, anche se con ritmi che per il singolo paziente appaiono purtroppo drammaticamente lenti, le percentuali di sopravvivenza a lungo termine della popolazione pediatrica con tumori cerebrali appaiono costantemente aumentate in relazione all’ininterrotta immissione di nuove molecole nel prontuario terapeutico o all’individuazione di più efficaci protocolli combinati (chirurgia, chemioterapia, radioterapia). Resta ancora da sottolineare, a sostegno dell’importanza della ricerca in neurooncologia e di un maggiore coinvolgimento generale, come i tumori cerebrali pediatrici, a differenza di quelli dell’adulto o di altre neoplasie infantili, ad esempio, le leucemie, i linfomi di Hodgkin e non-Hodgkin, i tumori renali o quelli oculari, che sembrano in via di diminuzione, continuino costantemente ad aumentare in incidenza, con un incremento percentuale annuale dell’1 per cento. Attualmente i tumori dell’infanzia superano per frequenza come causa di morte neoplastica nel bambino le leucemie. Un dato che indurrebbe a riflessione è che l’aumentata incidenza caratterizza proprio i paesi evoluti, come quelli europei o dell’America del Nord, dove attualmente vengono registrati 32-34 nuovi casi per anno su un milione di abitanti.

Prof. Concezio Di Rocco
Primario dell’Unità Operativa di Neurochirurgia Infantile
Policlinico A. Gemelli




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28/07/2009 17:34

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Derivazione liquorale spinale


La derivazione liquorale spinale (D.L.S.) è una metodica chirurgica di drenaggio del liquido cerebrospinale all’esterno che si ottiene con apposizione di un catetere derivativo nello spazio subaracnoideo spinale, in genere mediante puntura lombare, connesso ad un reservoir esterno per la raccolta del fluido drenato.

Scopi: l’indicazione principale è quella di diminuire la pressione liquorale intracranica, “divertendo” la circolazione liquorale verso lo spazio spinale allo scopo di permettere la guarigione spontanea di lacerazioni durali: esempio tipico fistole liquorali a seguito di interventi chirurgici o di traumi.
Meno comunemente la D.L.S. viene utilizzata per mantenere bassa la pressione intracranica per un periodo relativamente prolungato: esempio tipico edema cerebrale post-traumatico, ipertensione endocranica benigna (se la pressione deve essere mantenuta costantemente bassa la D.L.S. può essere sostituita da una derivazione interna spino-peritoneale).
Ancora più raramente la D.L.S. può essere utilizzata per il trattamento di infezioni cerebro-meningee.

Tecnica: la D.L.S. viene in genere realizzata tramite puntura lombare con ago apposito. Nel bambino è preferibile l’anestesia generale. Il catetere di drenaggio di calibro assai sottile e flessibile viene fatto passare per qualche centimetro sotto la cute prima della sua fuoriuscita all’esterno (per evitare fistole lungo il drenaggio stesso per capillarità, diminuire il rischio infettivo e aumentare la stabilità del sistema). Per evitare l’asportazione accidentale il catetere viene fissato, dopo aver fatto un’ansa ad otto, alla cute con punti di sutura. Un rubinetto a tre vie consente la fuoriuscita del liquor, l’iniezione di fluidi per la terapia antibiotica e l’esecuzione di prelievi per il monitoraggio delle colture liquorali (in genere ogni secondo giorno per assicurarsi del mantenimento della sterilità, più frequentemente in caso di infezione).


\Regolazione del flusso: per evitare una perdita liquorale eccessiva e troppo rapida ( soprattutto nel paziente in posizione seduta o ortostatica). Il sistema per la D.L.S. è munito di un deflussore con dial-a-flo che regola un flusso costante di liquor anche di fronte a pressioni liquorali alte. In genere il drenaggio esterno è fissato su valori di VI gtt./m ( pari a circa 10ml/h l’equivalente cioè della metà circa della produzione liquorale in condizioni normali).
Mantenimento: come per tutte le derivazioni liquorali ogni manipolazione della derivazione deve essere fatta nelle condizioni migliori di sterilità (l’uso di guanti è obbligatorio). In genere la medicazione della cute a livello della fuoriuscita del catetere viene effettuata ogni 3° giorno (soluzioni di Betadine). Il paziente può giacere in posizione supina anche se il decubito laterale è preferibile. Per la presenza della valvola di drenaggio, è possibile anche la posizione seduta, senza cioè la necessità di sospendere il drenaggio liquorale e, quando indispensabile, anche quella eretta (ad esempio necessità fisiologiche, in questo caso ci si deve assicurare che il catetere derivativo non si disconnetta dal reservoir durante la deambulazione del paziente).
Durata: in genere la D.L.S. viene mantenuta per il tempo sufficiente alla riparazione durale 6-10-14 gg., dopo i quali il catetere spinale viene rimosso in reparto ed il punto di fuoriuscita chiuso con una singola sutura.
Complicazioni: la possibilità di un’infezione secondaria è il rischio maggiore associato alla tecnica. L’incidenza di tale complicazione può essere ridotta con un’accurata sorveglianza infermieristica, mentre il valore di un’antibiotico-terapia profilattica è ancora discusso ( per la possibilità di selezionare germi resistenti). Una complicanza abbastanza frequente è la perdita liquorale da risalita capillare lungo la superficie esterna del catetere (in tale caso è da escludere una chiusura più o meno completa della derivazione stessa. Manovre possibili: dislocazione esterna di qualche millimetro del catetere, eventuali lavaggi con soluzioni sterili ed antibiotici). Eccezionalmente il catetere spinale può rompersi a seguito di movimenti bruschi del paziente o durante la manovra di rimozione. (La porzione di catetere in situ deve essere rimossa chirurgicamente). Non raramente il bambino può lamentarsi specie nei primi giorni di dolori agli arti inferiori, dovuti alla manovra chirurgica o ad un intimo contatto del catetere intratecale con le radici nervose). In genere, i sintomi sono transitori e comunque risolvibili con la rimozione del catetere (da escludere infezioni secondarie).




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28/07/2009 17:34

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Il trauma cranico in età pediatrica

Nei giorni 10-13 Maggio 2001 si è tenuta, presso la suggestiva cornice offerta dalla città di Assisi e grazie anche al sostegno dell’ associazione “Ali di scorta” , la Consensus Conference on Pediatric Neurosurgery sul trauma cranico pediatrico, organizzata dal Prof. Di Rocco e dal Dr. Velardi, che ha visto riuniti i maggiori esperti mondiali del settore. Nei tre giorni del congresso sono stati dibattuti tutti i principali aspetti fisiopatologici e clinici di questa importante condizione morbosa, che è gravata, ancora oggi, di elevata mortalità e morbilità. Nei paesi occidentali, infatti, la patologia traumatica rappresenta la causa più frequente di morte nella fascia di età compresa tra 0 e 14 anni, ed è responsabile di lesioni neurologiche spesso invalidanti nei bambini sopravvissuti, con costi sociali ed affettivi enormi per la collettività e le famiglie colpite. Negli Stati Uniti ogni anno si registrano circa 600.000 accessi al pronto soccorso per trauma cranico pediatrico e circa 95.000 bambini sono ricoverati per tale patologia, per una spesa sanitaria di circa 1 bilione di dollari/anno. Fortunatamente circa il 90% dei casi di trauma cranico pediatrico non è gravato da lesioni cerebrali importanti, mentre il restante 10% è caratterizzato da lesioni endocraniche che, spesso, richiedono un intervento neurochirurgico immediato o, comunque, l’ assistenza in terapia intensiva pediatrica. Nel caso del trauma cranico grave la mortalità può variare, in base alle diverse casistiche ed alle diverse realtà sociali, dal 15 al 30%, mentre gli esiti neurologici a distanza possono essere caratterizzati da una grave disabilità fino ad uno stato vegetativo persistente, fortunatamente poco frequente in età pediatrica. In Italia non esistono delle casistiche aggiornate riguardo l’ incidenza di tale patologia, in quanto i dati dell’ Istat, riferiti a tale condizione morbosa, sono fermi al 1994. Comunque, dati recenti della letteratura riferiscono che circa 3 bambini su 10 sono trasportati in pronto soccorso per un trauma cranico ed 1 bambino ogni 600 nati muore in conseguenza di un trauma cranico grave. Tale condizione morbosa colpisce più frequentemente i bambini rispetto alle bambine, in conseguenza delle diverse attività sociali e sportive dei primi. La causa più comune di trauma cranico è rappresentata dagli incidenti automobilistici, in cui i bambini sono coinvolti come occupanti del veicolo o sono investiti come pedoni o ciclisti. Nella fascia di età sopra i 14 anni, invece, la causa più frequente è rappresentata dagli incidenti motociclistici, anche se la recente istituzione del casco sta conseguendo dei risultati molto importanti nel limitare i danni cerebrali. Altre cause importanti sono rappresentate dagli incidenti domestici e dalle cadute, mentre i casi di bambino maltrattato sono relativamente pochi, a differenza degli Stati Uniti. Il trauma cranico è responsabile di un danno cerebrale primario (che si realizza al momento dell’ impatto) e di un danno cerebrale secondario, che dipende da una serie di reazioni biochimiche, molecolari e neuroormonali che determinano la morte dei neuroni, a distanza dal trauma. La prognosi dei bambini con trauma cranico dipenderà strettamente dalla natura e dalla estensione del danno neurologico primario e dalla efficacia dei diversi trattamenti per prevenire e/o limitare il danno cerebrale secondario. Purtroppo l’ unica possibilità per limitare il danno primario è rappresentata dalla prevenzione, per cui assume un’ importanza fondamentale la diffusione e la conoscenza di tutti i presidii fondamentali per la protezione dei bambini, sia nell’ ambiente domestico che, soprattutto, quando trasportati in automobile. Da una nostra recente indagine, condotta su 30 bambini con trauma cranico grave coinvolti in incidenti automobilistici, abbiamo appurato che solo 3 di essi erano legati alle cinture di sicurezza e solo 2 erano fissati al seggiolino, per cui è evidente quanto ancora ci si debba impegnare nel diffondere le più elementari misure di prevenzione e di sicurezza. La prevenzione ed il trattamento del danno cerebrale secondario, invece, possono giovarsi di tutta una serie di interventi da attuare sia al momento dell’ incidente che nella successiva fase del trattamento ospedaliero. Nel primo caso assume importanza fondamentale una adeguata assistenza al bambino traumatizzato sulla scena stessa dell’ incidente, dove, mediante l’ intervento di personale qualificato, si possano ridurre il più possibile i danni causati da alcune complicanze precoci, come l’ ipossia e l’ ipotensione post-traumatiche. Purtroppo ancora oggi, e non solo in Italia, la gran parte dei bambini con trauma cranico grave non è gestita in maniera adeguata sulla scena dell’ incidente, poiché solo il 40% di essi viene intubato precocemente e stabilizzato dal punto di vista emodinamico, con ovvie ripercussioni sullo stato di ossigenazione cerebrale e di perfusione periferica. La conoscenza di queste complicanze post-traumatiche precoci, associata ad un loro adeguato trattamento, nonchè un pronto trasferimento del bambino verso un centro ospedaliero dotato di un servizio di neurochirurgia infantile (“scoop and run” degli autori anglosassoni) ha permesso di ridurre, negli Stati Uniti, la mortalità del 40% negli ultimi venti anni. Purtroppo la realtà italiana è lungi dall’ essere soddisfacente. Un nostro studio recente, condotto sui bambini della regione Lazio con trauma cranico grave, ha evidenziato come, sia il trattamento iniziale che i tempi di trasferimento dei bambini dagli ospedali periferici al nostro centro, siano poco adeguati alla gravità di tale condizione morbosa. Infatti i tempi medi di ingresso sono stati superiori alle quattro ore, mentre il tempo trascorso dal momento del trauma all’ intervento neurochirurgico (il più delle volte salvavita), è stato di circa quattro ore e mezzo. Sebbene i nostri dati siano riferiti ad un solo centro riteniamo, comunque, che il management iniziale del bambino con neurotrauma, almeno nella nostra regione, sia inadeguato e che sia necessario attuare tutta una serie di interventi, preventivi e terapeutici, per migliorare tale situazione. Infatti, parafrasando le parole di un collega francese, ci sentiamo di affermare che migliorare la qualità dell’ assistenza al bambino traumatizzato sulla scena dell’ incidente deve rappresentare il “first goal”, l’ obiettivo principale dei prossimi anni. In conclusione la prognosi dei bambini con trauma cranico può essere migliorata dalla conoscenza dei più importanti fattori di rischio legati a tale patologia, nonché dalla attuazione di algoritmi terapeutici da applicare nei centri di neurochirurgia e di terapia intensiva pediatriche, in accordo con linee guida internazionali standardizzate. Infatti una corretta stabilizzazione e sedazione, un accurato monitoraggio della pressione intracranica e della ossigenazione cerebrale, la profilassi delle crisi convulsive post-traumatiche, un costante monitoraggio della temperatura corporea, un rigido controllo metabolico, sono tutte procedure che hanno permesso di migliorare, negli ultimi anni, la prognosi dei bambini con trauma cranico, riducendo sia i danni neurologici a distanza che la mortalità, legate a tale patologia.
Se l’aggiornamento medico spetta alle istituzioni ed agli stessi operatori sanitari, alla Società compete il compito di informare e di assicurare tutte le misure preventive che possano ridurre l’incidenza dei traumi cranioencefalici. In questa direzione le associazioni laiche, come Ali di Scorta ha dimostrato contribuendo all’organizzazione del convegno di Assisi, possono avere un ruolo estremamente interessante



Dott. Antonio Chiaretti
Terapia Intensiva Pediatrica
Policlinico “A. Gemelli”, Roma.




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28/07/2009 17:35

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Il mutismo cerebellare

Tra le complicazioni della chirurgia in fossa cranica posteriore, il mutismo cerebellare colpisce particolarmente per l’evidenza della manifestazione clinica, l’insorgenza relativamente tardiva e l’evoluzione spontaneamente favorevole.
Si tratta di una complicazione rara (1,5% dei casi) che generalmente si presenta in bambini di età inferiore ai 10 anni dopo un intervento chirurgico di asportazione di un tumore cerebellare (medulloblastoma e più raramente ependimoma e astrocitoma) localizzato sulla linea mediana, quasi sempre di grandi dimensioni e spesso associato ad idrocefalo ostruttivo. Il disturbo del linguaggio insorge caratteristicamente a distanza di 24-72 ore dopo un intervento apparentemente ad esito favorevole, in modo improvviso, senza alterazioni dello stato di coscienza, con integrità della capacità di comprensione e senza la comparsa di deficit dei nervi cranici che innervano i muscoli della faccia, bocca, lingua e faringe.
Il mutismo può essere completo o parziale. Nel primo caso il bambino non è in grado di emettere alcun suono mentre, nel secondo, il paziente riesce a pronunciare qualche semplice parola o frase o a lamentarsi. All’alterazione del linguaggio può associarsi un disturbo del comportamento caratterizzato da irritabilità, aggressività ed apatia. Questa sindrome dura generalmente da 2 settimane a 3-4 mesi per poi regredire spontaneamente. In alcuni bambini, la ripresa della parola è preceduta da un periodo di alcune settimane caratterizzato da disartria cioè da un’alterazione del linguaggio conseguente ad una imperfetta articolazione della parola.
La reversibilità della sindrome distingue il mutismo cerebellare dai deficit del linguaggio di espressione che possono essere osservati dopo lesioni cerebrali dell’emisfero dominante (area frontale di Broca). La capacità di comprendere il linguaggio che viene mantenuta, d’altra parte, distingue il mutismo cerebellare dal deficit di comprensione del linguaggio che segue a lesioni dell’emisfero dominante (area parietale di Wernicke).

Ruolo del cervelletto
Il cervelletto svolge diverse funzioni: controlla i movimenti oculari e l’equilibrio del capo durante la stazione eretta e la deambulazione; coordina il movimento degli arti e partecipa alla pianificazione ed all’apprendimento dei movimenti complessi. Nel bambino fino al quindicesimo anno di età circa, il cervelletto svolge un ruolo fondamentale nei processi cognitivi di elaborazione e pianificazione del linguaggio ed è coinvolto in alcuni processi emozionali e comportamentali. Si ipotizza, in particolare che gli emisferi cerebellari e i nuclei dentato ed emboliforme, tramite le connessioni con alcune aree della corteccia frontale e parietale, siano le strutture nervose cerebellari preposte a svolgere i processi di elaborazione di attività mentali come il linguaggio e la capacità di organizzare un’azione. Il verme, invece, funge da “processore” di emozioni quali l’aggressività.


Cenni di fisiologia del linguaggio
Il linguaggio è il risultato dell’integrazione di un processo cognitivo e di uno motorio. Una parola o una frase che viene “pensata” deve essere trasformata in un suono attraverso l’apparato della fonazione. Dalle aree cerebrali cognitive in cui prende forma la frase da pronunciare gli impulsi elettrici vengono trasferiti ad un’area del lobo frontale chiamata area di Broca da cui partono i segnali per i muscoli della bocca, lingua, faringe e dell’apparato respiratorio che servono a pronunciare le parole. Tali muscoli devono contrarsi in modo coordinato e con una esatta sequenza specifica per ogni parola. Il cervelletto, ha proprio questa funzione. In particolare si pensa che i nuclei dentato ed emboliforme e alcune aree del verme siano deputate a raccogliere ed elaborare le informazioni motorie generatesi nel lobo frontale, di coordinarle ed organizzarle prima di essere inviate ai muscoli dell’apparato della fonazione. Per ragioni ancora non chiare, questo processo sembra essere particolarmente importante nel bambino rispetto all’adulto.

Patogenesi
La causa dell’insorgenza del mutismo non è ancora stata completamente chiarita. Si pensa che il trauma chirurgico sul verme e sugli emisferi cerebellari possa causare l’interruzione dei circuiti neuronali deputati all’elaborazione del linguaggio. Non si tratta però di un’interruzione anatomica, poiché la complicazione evolve spontaneamente in maniera favorevole, ma piuttosto di una lesione di tipo funzionale. Ciò è confermato dal fatto che il disturbo insorge a distanza di diverse ore dall’intervento e quindi in probabile relazione con fenomeni transitori come il rigonfiamento cerebellare, l’edema, l’idrocefalo ed eventuali disturbi dell’irrorazione ematica. L’osservazione che i bambini affetti da mutismo cerebellare migliorano velocemente dopo la dimissione dall’ospedale suggerisce il possibile ruolo anche di un’importante componente funzionale della sfera emotiva / psicologica.

Terapia ed evoluzione
Il mutismo cerebellare è una sindrome transitoria che si risolve spontaneamente e gradualmente in alcune settimane. Le conoscenze relative alla patogenesi di questa sindrome non sono sufficienti per potere attuare un’efficace prevenzione del disturbo né una terapia specifica. E’ stato comunque osservato che la dimissione del paziente accelera il miglioramento dei sintomi, così come un adeguato atteggiamento non ansiogeno da parte dei familiari, che possono piuttosto tendere a tranquillizzare il bambino una volta consapevoli che, comunque, si tratta di un fenomeno destinato alla regressione spontanea.


Luca Denaro







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28/07/2009 17:35

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TERZOVENTRICOLO-CISTERNOSTOMIA ENDOSCOPICA


La terzoventricolo-cisternostomia endoscopica (TVE) rappresenta una tecnica neurochirurgica per il trattamento dell’idrocefalo di recente diffusione, sebbene le prime esperienze risalgano agli inizi del XX secolo. L’attuale interesse per questa metodica è giustificato dal progresso tecnologico che mette a disposizione degli specialisti apparecchiature sofisticate che hanno consentito di ridurre significativamente i rischi operatori ad essa correlati.
Prima di definire lo scopo di questa procedura riteniamo utile ricordare cosa intendiamo per idrocefalo al fine di comprendere quali sono i pazienti che possono beneficiarsi della metodica.Il liquido cefalorachidiano (LCR) o liquor è un liquido con funzioni nutritive e di sostegno per il Sistema Nervoso Centrale che viene prodotto all’interno di quattro cavità cerebrali che prendono il nome di ventricoli; in particolare la quota maggiore del LCR è.prodotta a livello di due cavità simmetriche che prendono il nome di ventricoli laterali; da ciascun ventricolo laterale, attraverso un forame di comunicazione, denominato forame di Monro, il liquor raggiunge il terzo ventricolo e quindi, attraverso un canale di collegamento (acquedotto di Silvio) il quarto ventricolo. Successivamente l’LCR fuoriesce dal IV ventricolo (forami di Magendie e di Luscka) per riversarsi in spazi di conversione verso la circolazione venosa (cisterne aracnoidee) in corrispondenza dei quali viene assorbito. Si parla di idrocefalo nel momento in cui, a causa dell’impossibilità a defluire correttamente o, più raramente, a seguito di una eccessiva produzione, il liquor si accumula in una o più delle cavità ventricolari. La terzoventricolo-cisternostomia endoscopica ha lo scopo di creare un passaggio alternativo alle vie descritte di deflusso liquorale. La tecnica prevede la introduzione all’interno dei ventricoli laterali di una strumentazione a fibre ottiche (endoscopio), attraverso un punto di accesso di dimensioni ridotte (circa 1 cm.) della superficie cranica e della corteccia cerebrale; la visione è consentita da una telecamera collegata ad un monitor. Attraverso il forame di Monro l’endoscopio viene fatto avanzare all’interno del III ventricolo; la porzione inferiore di questa struttura è normalmente rappresentata da una membrana chiusa, al di sotto della quale sono presenti le cisterne aracnoidee. Con l’aiuto di strumenti microchirurgici si crea una apertura di questa membrana (stomia); in questo modo viene by-passato il transito del liquor attraverso le ultime due tappe del sistema ventricolare (acquedotto di Silvio e IV ventricolo).
E’ pertanto comprensibile come l’indicazione principale alla terzoventricolo-cisternostomia endoscopica sia rappresentata da quei bambini in cui l’idrocefalo sia determinato da un ostacolo alla circolazione liquorale al passaggio fra il terzo ed il quarto ventricolo (acquedotto di Silvio). Per il successo della procedura è molto importante che a valle del quarto ventricolo la circolazione liquorale sia normale e che i meccanismi di riassorbimento dell’LCR funzionino correttamente. Ne deriva che, pazienti che hanno subito eventi che possano ostacolare tale riassorbimento, hanno minori possibilità di successo. E’ il caso di bambini in cui l’ idrocefalo sia una conseguenza di un sanguinamento all’interno delle camere ventricolari o di un processo infettivo del LCR (meningite). Infatti, in questi casi, la formazione di coaguli o la reazione infiammatoria al processo infettivo possono ostruire il passaggio del liquor verso il circolo venoso (ostruzione delle cisterne aracnoidee).
Prima dell’intervento è necessario un dettagliato studio neuroradiologico in Risonanza Magnetica, al fine di definire l’anatomia ventricolare ed escludere eventuali ostacoli alla procedura (ad es. dimensioni eccessivamente ridotte del terzo ventricolo).
Il vantaggio principale della terzoventricolo-cisternostomia endoscopica rispetto agli interventi più tradizionali effettuati per il trattamento dell’idrocefalo (ad es. la derivazione ventricolo-peritoneale), è che non prevede l’impianto di una protesi. E’ noto infatti che per tutti i sistemi di derivazione protesici esiste un rischio di infezione, valutabile intorno al 10%, ed un rischio di ostruzione o di cattivo funzionamento, che si verifica a distanza di tempo in percentuali fino al 50%. Sfruttando inoltre le vie anatomiche di deflusso il liquor raggiunge le cisterne cerebrali secondo parametri di pressione fisiologici seguendo vie di riassorbimento sovrapponibili a quelle dei soggetti sani; in questo modo viene escluso un ulteriore rischio dei sistemi di derivazione protesici che è quello di un eccessivo drenaggio liquorale. Non sono da sottovalutare infine gli aspetti positivi da un punto psicologico del mancato utilizzo di protesi , sia per il piccolo paziente che per i genitori.
Il rischio più temuto della procedura è rappresentato dal possibile danneggiamento di strutture vascolari (arteria basilare e suoi rami) anatomicamente vicine al punto dove viene effettuata la stomia. Per quanto l’incidenza di questo tipo di complicanza sia ridotta (1-2%), comporta un rischio di mortalità di circa lo 0.5%.
In conclusione la terzoventricolo-cisternostomia endoscopica rappresenta una metodica che consente di trattare l’idrocefalo sfruttando le fisiologiche vie di deflusso liquorale, senza l’impianto di sistemi protesici; ha un rischio operatorio relativamente contenuto, e una elevata possibilità di successo nei casi opportunamente selezionati. E’ essenziale, però, che tale procedura venga effettuata nell’ambito di un Centro che possieda l’esperienza diagnostica richiesta, la strumentazione adatta e l’esperienza chirurgica necessaria.
Gianpiero Tamburrini
Luca Massimi




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28/07/2009 17:36

Medici

UNO STUDIO SUL CONSENSO INFORMATO IN NEUROCHIRURGIA INFANTILE:
IL RUOLO DELLA “COMUNICAZIONE EMOTIVA”


INTRODUZIONE
Nella letteratura medica più recente sono frequenti studi e ricerche sul tema del consenso informato. Questi articoli enfatizzano soprattutto l’aspetto medico-legale connesso all’informazione, come strumento di tutela del medico nei confronti del paziente. Negli ultimi anni, tuttavia, l’interesse verso il consenso informato si sta indirizzando anche verso la valutazione dell’efficacia di tale strumento nella trasmissione delle informazioni mediche, in risposta al cambiamento culturale che ha condotto il paziente ad una maggiore consapevolezza del proprio diritto al coinvolgimento nelle decisioni riguardanti la propria salute.
Il consenso informato assume caratteristiche peculiari nell’ambito della Neurochirurgia Infantile, sia perché il paziente è un bambino (quindi il consenso è richiesto ai suoi genitori) sia per il tipo di patologia, che prevede spesso un intervento chirurgico rischioso per la sopravvivenza del paziente o per la qualità della sua vita.
In questo contesto, la comunicazione dell’informazione è un’operazione complessa, non solo per i contenuti “tecnici” spesso di difficile comprensione, ma anche per la ricaduta emotiva che il colloquio può avere su entrambi i partecipanti.
Questa è la ragione che ci ha indotto a condurre una verifica delle aspettative di genitori e medici sul consenso informato all’intervento chirurgico, attraverso una ricerca che avesse un duplice obiettivo:
-una valutazione da parte del medico sulle informazioni trasmesse, e sul presunto grado di comprensione di queste nei genitori,
-una valutazione da parte del genitore su quanto in realtà si sia giovato delle spiegazioni del medico, ovvero, se il colloquio del consenso informato è riuscito a soddisfare le sue aspettative.
Lo studio si è basato su un questionario, consegnato al termine dei colloqui informativi prima dell’intervento chirurgico, e compilato nella prima parte dai genitori, al fine di rilevare il loro grado di soddisfazione sulle informazioni ricevute, e nella seconda parte dai medici, per un’autovalutazione delle informazioni date e per una previsione del grado di comprensione da parte dei genitori.
MATERIALI E METODI
Nel periodo Giugno – Dicembre 2001, ai genitori dei bambini ricoverati nel Reparto di Neurochirurgia Infantile, al termine del colloquio per il consenso informato all’intervento chirurgico, è stato consegnato un questionario composto da 19 domande, preparato dall’equipe curante, e mirato a rilevare il grado di informazione sulle informazioni ricevute. Contemporaneamente il medico che aveva tenuto il colloquio compilava un altro questionario, composto da 5 domande, finalizzato ad un’autovalutazione delle informazioni trasmesse e ad un giudizio sul grado di comprensione da parte del genitore.
La spiegazione della ricerca ai genitori e la consegna dei questionari sono state eseguite dalla psicologa del reparto, che dopo la restituzione del questionario teneva uno o più colloqui, volti ad integrare e ad approfondire le informazioni emerse.
L’età dei pazienti è espressa in media ± deviazione standard.

RISULTATI
Sono stati consegnati ai genitori 50 questionari; ne sono stati restituiti debitamente compilati 40.
I bambini i cui genitori hanno restituito il questionario avevano un’età di 4.9 ± 4.09 anni (range 1 mese – 15 anni).
L’indicazione all’intervento erano: patologie neoplastiche (37.5%), malformative (32.5%), displastiche (17.5%), varie - lacuna ossea, epilessia farmacoresistente, igroma, idrocefalo post-emorragico - (12.5%).
Su 40 pazienti, 11 (27,5%) erano già stati sottoposti ad uno o più interventi neurochirurgici in precedenza.
Le risposte alle domande del questionario di medici e genitori sono riportate rispettivamente nelle Tabelle 2 e 3. Comparazione tra valutazioni del genitore e del medico informante
La valutazione comparata tra questionario compilato dal genitore e quello compilato dal medico è avvenuta confrontando le risposte a quattro punti fondamentali: la quantità delle informazioni; il grado di comprensione delle informazioni stesse; la consapevolezza/padronanza della situazione; il grado di comprensione dei rischi e delle possibili complicazioni relativi all’intervento (tab. 1).
In 26 casi (65%), si è verificata una concordanza tra le risposte dei genitori e del medico su tutti e quattro i punti presi in considerazione.
Negli altri 14 casi (35%) la discordanza nelle risposte è stata la seguente:
1) per quanto riguarda la quantità delle informazioni date e ricevute, in 5 casi il genitore esprimeva un giudizio sufficiente, mentre per il medico era più che sufficiente; in 3 casi per il genitore la quantità delle informazioni era insufficiente, mentre per il medico era sufficiente.
2) sulla comprensione delle informazioni, 5 genitori si attribuivano una scarsa comprensione della situazione, mentre la stima del medico era in 3 casi buona e in 2 casi sufficiente; 7 genitori si attribuivano una comprensione sufficiente, che a giudizio del medico era invece buona.
3) il processo del consenso informato in 7 genitori non ha influito sulla conoscenza/padronanza della situazione del bambino, mentre il medico li riteneva maggiormente consapevoli. In un caso, il medico attribuiva minore consapevolezza della condizione ad un genitore che invece si riteneva più consapevole.
4) per quanto riguarda il grado di comprensione dei rischi dell’intervento e delle relative complicazioni, 9 genitori ritenevano di avere un livello di conoscenza genericamente sufficiente, mentre il medico aveva l’impressione che avessero una conoscenza specificatamente adeguata.
Dal confronto incrociato tra le risposte dei genitori e quelle dei medici, emerge quindi che, in 14 valutazioni su 40 (35%), i medici hanno una stima eccessiva su uno o più aspetti delle informazioni recepite da parte dei genitori durante il colloquio del consenso informato.


TABELLA 1

COMPARAZIONE VALUTAZIONE GENITORI E MEDICO INFORMANTE
Uniformità totale 26/40
Difformità sulla quantità di informazione 8/40
sopravvalutazione da parte del medico 8/8
Difformità sul grado di comprensione 12/40
sopravvalutazione da parte del medico 12/12
Difformità sulla consapevolezza della situazione 8/40
sopravvalutazione da parte del medico 7/8
sottovalutazione da parte del medico 1/8
Difformità sulla comprensione di rischi chirurgici 9/40
sopravvalutazione da parte del medico 9/9
TABELLA 2

RISULTATI DEI QUESTIONARI DEI MEDICI INFORMANTI
Valutazione delle informazioni che ha fornito:
Sufficienti: 57,5%
Più che sufficienti: 42,5%
Insufficiente: 0
Impressione del grado di comprensione da parte dei familiari:
Sufficiente: 52,5%
Buono: 47,5%
Insufficiente: 0
Valutazione del grado di partecipazione dei familiari:
Inadeguato: 2,5%
Sufficiente: 40%
Molto partecipe: 57,5%
Impressione sulla comprensione da parte dei genitori sul rischio dell’intervento e delle relative complicazioni:
Genericamente sufficiente: 27,5%
Specificatamente adeguata: 65%
Eccellente: 7,5%
Il processo del consenso informato ha reso i familiari del paziente:
Più consapevoli/padroni della condizione del bambino: 95%
Meno consapevoli/padroni della condizione del bambino: 2,5%
Non ha modificato il loro stato di conoscenza: 2,5%
TABELLA 3

RISULTATI DEI QUESTIONARI DEI GENITORI
Chi le ha dato più informazioni sulla diagnosi di suo figlio?
Solo chirurgo: 90%
Chirurgo e specializzando: 2.5%
Chirurgo e psicologa: 7.5%
Ha avuto un colloquio specificatamente diretto alla spiegazione della natura delle possibilità di cura della malattia di suo figlio?
Solo primario: 55%
Solo aiuto/assistente: 37.5%
Primario e aiuto/assistente: 2.5%
Aiuto/assistente e specializzando: 5%
Le è stata spiegata l’utilità del consenso informato?
Si: 95%
No: 5%
Riferisce le sue impressioni circa l’efficacia del colloquio: le informazioni le sono sembrate:
Facili da capire: 60%
Facili in parte, difficili in altre: 35%
Confuse: 5%
Le informazioni riguardo il consenso informato che ha avuto dai medici e dagli infermieri le sono sembrate quantitativamente:
Sufficienti: 85%
Insufficienti: 7.5%
Eccessive: 0
Non risponde: 7.5%
Quanto tali informazioni hanno migliorato la sua conoscenza riguardo la condizione di suo figlio?
Molto: 32.5%
Abbastanza: 47.5%
Poco: 15%
Non risponde: 5%
Quanto le informazioni ricevute hanno migliorato la sua comprensione circa l’esistenza (o l’assenza) di altre possibilità terapeutiche:
Molto: 27.5%
Abbastanza: 40%
Poco: 27.5%
Non risponde: 5%
Le informazioni ottenute per il consenso informato le hanno consentito:
Una maggiore conoscenza e padronanza della situazione: 77.5%
Non hanno influito sulla conoscenza e la padronanza della situazione: 20%
Hanno determinato una minore conoscenza/padronanza della situazione: 2.5%
Le informazioni ottenute hanno:
Diminuito il suo stato di ansia: 35%
Non hanno modificato il suo stato di ansia: 37.5%
Hanno aumentato il suo stato di ansia: 25%
Non risponde: 2.5
Ha avuto l’impressione di una qualche pressione per dare il consenso all’intervento?
Molta pressione: 2.5%
Una pressione corretta: 17.5%
Nessuna pressione: 75%
Non risponde: 5%
Le è sembrato di aver avuto sufficienti opportunità per porre domande circa l’intervento?
Si: 97.5%
No: 2.5%Ha avuto risposte esaustive alle sue domande?
Si: 92.5%
No: 7.5%
Nel complesso come giudica il processo di informazione da parte dei medici e degli infermieri:
Buono: 77.5%
Sufficiente: 17.5%
Insufficiente: 2.5%
Non risponde: 2.5%
Ha firmato il consenso informato?
Si: 100%
No: 0
Quali correzioni suggerirebbe per migliorare il consenso informato:
Maggior tempo disponibile da parte:
dei medici: 50%
degli infermieri: 7.5%
della psicologa: 10%
opuscoli informativi: 15%
Non risponde: 12.5%
Quali figure considera le più indicate per spiegare a suo figlio/a l’intervento:
solo genitore: 45%
solo medico: 20%
genitore e infermiere: 2.5%
solo psicologa: 15%
psicologa e genitore: 12.5%
preferisco rimanga all’oscuro: 5%
Indichi quali informazioni desidera ricevere in maniera più dettagliata riguardo a specifici aspetti dell’anestesia e dell’intervento.
Tutte le possibili complicazioni: 47.5%
Solo le complicazioni pericolose per la vita o le funzioni della vita di relazione: 27.5%
Solo le complicazioni più frequenti: 25%
Anche le informazioni circa la tecnica dell’intervento: 52.5%
Durata anestesia: 30%
Durata intervento: 40%
Necessità di trasferimento in terapia intensiva dopo l’intervento: 35%
Quando il bambino potrà alzarsi: 30%
Quando si potrà alimentare: 30%
Utilità e necessità di terapia antibiotica profilattica: 27.5%
Altre….
Vorrei rimanere all’oscuro: 5%
DISCUSSIONE
Il consenso informato in età pediatrica è un processo caratterizzato dall’incontro tra il medico e i genitori, con l’obiettivo di rendere questi ultimi più consapevoli e più informati sullo stato di malattia del figlio, e sulle sue possibilità di cura. Adattandosi alle condizioni della malattia, alla sua diagnosi e alla sua prognosi, il colloquio si può articolare in diversi luoghi e in diversi tempi.
I risultati dei questionari compilati dai genitori evidenziano complessivamente un giudizio positivo sulla quantità e sulla qualità delle informazioni ricevute dai medici durante il processo del consenso informato.
Dai nostri dati, possiamo però dedurre che le informazioni che il medico ritiene di aver trasmesso a volte non sono totalmente comprese dai genitori.
E’ frequente, infatti, (35% dei casi) che i medici sopravvalutino le informazioni che i genitori effettivamente acquisiscono nel corso del colloquio.
In particolare, nel 17.5% dei casi, il processo del consenso informato non ha migliorato la conoscenza della situazione da parte dei genitori, ed in un caso l’ha addirittura peggiorato.
Questa percentuale di “insuccessi” nella comunicazione può avere evidentemente varie interpretazioni. La più ovvia è l’asimmetria delle conoscenze tra medico e genitore nei confronti della malattia, che può portare il primo a sopravvalutare la sua capacità di trasmissione delle conoscenze e dall’altro limitare le possibilità di comprensione reale delle informazioni da parte del secondo.
Una seconda interpretazione potrebbe coinvolgere gli aspetti emotivi e quindi essere di più difficile risoluzione, perché non affrontabili in termini di semplice maggiore attenzione da parte del medico o di semplificazione delle sue modalità di espressione.
La nostra spiegazione a questo “fallimento” nel raggiungere le finalità proprie del consenso informato, è che una pur corretta trasmissione dei dati tecnici, ma non integrata da una adeguata interazione emotiva, abbia impedito l’elaborazione e la successiva memorizzazione delle informazioni da parte dei genitori.
E’ noto infatti che i medici formatisi nel nostro Paese non ricevono, nel corso del loro training, alcuna preparazione riguardo alla comunicazione tanto meno agli aspetti emotivi della comunicazione stessa.
Lo stato emotivo del genitore, il suo livello culturale, o una modalità di trasmissione delle informazioni poco incisiva sono possibili spiegazioni di questa inadeguata comprensione delle informazioni.
Dai colloqui d’approfondimento successivi alla consegna dei questionari abbiamo maturato la convinzione che l’efficacia del processo del consenso informato è direttamente proporzionale alla qualità della “comunicazione emotiva” che si instaura tra medico e genitore.
La severità della malattia connota la comunicazione tra il medico e i genitori come un’esperienza emozionale per tutti i partecipanti.
Nell’ottica della comunicazione emotiva, possiamo definire questo colloquio come un’interazione asimmetrica, caratterizzata da diversi gradi di coinvolgimento e di partecipazione emotiva. In questa accezione, le emozioni rappresentano dei mezzi di comunicazione che permettono di percepire gli stati della mente dell’interlocutore.
Il genitore ha fiducia nel medico e sperimenta la sensazione di essere capito, e il medico comprende i bisogni del genitore, quando si crea una sintonizzazione tra le loro emozioni. E’ possibile instaurare una comunicazione emotiva, solo se ciascuna delle parti coinvolte lascia che il proprio stato mentale sia influenzato da quello dell’altro.
Il medico potrebbe non rendersi conto dei segnali trasmessi dal genitore, qualora la presa in carico del paziente fosse vissuta come un’esperienza eccessivamente coinvolgente, per il tipo di intervento chirurgico richiesto e/o per le caratteristiche personali del paziente e della sua famiglia.
Il medico che riuscirà invece ad entrare in contatto con le proprie emozioni sarà in grado di percepire gli stati emotivi del genitore. Questa capacità gli consentirà di individuare le aspettative dei familiari, gli elementi su cui concentrano la loro attenzione, il loro modo di valutare gli eventi e, non ultimo, di prevederne il comportamento. Questa valutazione intuitiva permetterà al medico di rispondere in maniera specifica ai bisogni dei genitori (il bisogno di sapere, di essere rassicurati).
Aspetti della comunicazione emotiva
La condivisione degli stati della mente si basa fondamentalmente su forme di comunicazione non verbale, che costituiscono la più importante modalità di trasmissione delle emozioni. Il comportamento non verbale è percepito come più spontaneo di quello verbale (e per il genitore anche più veritiero), perché le parole possono essere scelte secondo le circostanze, mentre il comportamento non verbale non è controllabile con analoga facilità.
I messaggi che uniscono sia l’aspetto cognitivo che quello emotivo sono conservati più facilmente dalla nostra mente, a causa dell’effetto che le emozioni hanno sui meccanismi di attenzione, di memorizzazione, di elaborazione delle percezioni, e nell’attribuzione finale dei significati.
Alcuni dei comportamenti non verbali che possono influenzare positivamente i genitori sono:
-le espressioni del viso come l’ammiccamento degli occhi;
-un tono della voce caldo e deciso;
-un ritmo del discorso medio o un po’ più lento;
-i movimenti del corpo, quali una distanza di circa mezzo metro dagli interlocutori, l’inclinazione del busto in avanti;
-il contatto fisico, come il passare il proprio braccio sulla spalla del genitore.
Da un punto di vista verbale, invece, la comprensione può essere favorita da:
-un linguaggio semplice e conforme al livello culturale dei genitori. La parafrasi attraverso un esempio concreto o una metafora è molto utile, e se sarà efficace, il genitore si attiverà da un punto di vista verbale o non verbale;
-una risposta esaustiva data non appena è terminata la domanda, che rende la conversazione leggera e spontanea. Viceversa, continue interruzioni o lunghi monologhi non favoriscono una comprensione reciproca, ma stimolano dipendenza da un lato e ammirazione di se stessi dall’altro;
-domande ai genitori, che esprimono l’intenzione di volerli comprendere, e non solo di essere compresi. Evitare di fingere di aver capito o di aver seguito, quando ciò che il genitore ha detto risulta incomprensibile;
-nelle situazioni di incertezza, l’uso di parole che esprimono un’opinione personale, ad esempio “se fosse mio figlio”, possono avere una grossa influenza sulle decisioni finali del genitore.
In conclusione, la nostra ricerca ci induce a pensare che nel percorso formativo del medico non possa più essere assente l’acquisizione di strumenti atti a renderlo capace di una comunicazione efficace, che tenga conto anche degli aspetti emotivi insiti in essa.

BIBLIOGRAFIA
Kodish ED, Pentz RD, Noll RB, et el.: Informed consent in the children cancer group. Cancer June 15, 1998, vol. 82, n.12.
Kain ZN, Wang SM, Caramico LA, et al.: Parental desire for perioperative information and informed consent: a two-phase study. Anesth Analg 1997; 84:299-306.
Susman EJ, Dorn LD, Fletcher JC: Participation in biomedical research: the consent process as viewed by children, adolescents, young adults, and physicians. The Journal Pediatrics 1992, 121:547-52.
Siegel DJ: La mente relazionale Raffaello Cortina Editore 2001
Liotti G: Le opere della coscienza Raffaello Cortina Editore 2001




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ALI DI SCORTA: un’iniziativa a favore del bambino maltrattato


Tra le emergenze socio-sanitarie dei paesi ad alto tasso di sviluppo, i traumi cranio-encefalici costituiscono un problema particolare per la loro elevata incidenza (1% della popolazione), l’alta mortalità ad essi associata (da 10 a 30 casi per 100.000 abitanti), il coinvolgimento sempre crescente delle fasce d’età più fragili, da un lato bambini sotto i 5 anni di età , dall’altro persone di età superiore ai 65 anni, e di soggetti con alta potenzialità di vita, come adolescenti e giovani adulti. In altri termini, i traumi cranio-encefalici rappresentano una patologia ad altissimo costo sociale e giustificano quindi le numerose iniziative intraprese nei vari paesi per diminuirne l’incidenza e minimizzarne le conseguenze.
Non deve perciò sorprendere se Ali di Scorta, pur essendo un’associazione il cui interesse è maggiormente indirizzato verso i tumori del sistema nervoso centrale del bambino, abbia creduto opportuno contribuire ad un’iniziativa scientifica – Consensus Conference on Pediatric Neurosurgery: Head Injuries: management of primary damage – secondary damage prevention (Traumi cranici: il trattamento del danno primario- la prevenzione del danno secondario) che si svolgerà ad Assisi, 10-13 Maggio 2001. La Conferenza riunirà esperti dei vari paesi e riguarderà diversi aspetti, dalla rilevanza del design ambientale nel favorire gli incidenti all’importanza di un appropriato trattamento “sul teatro” dell’incidente stesso, dalla necessità di un’adeguata assistenza ospedaliera iniziale alle modalità medico-chirurgiche atte a prevenire le complicazioni secondarie e ridurre l’entità degli esiti a distanza.
L’intervento di Ali di Scorta in particolare riguarderà un problema nel problema, quello del “bambino percosso”, uno specifico quadro clinico caratterizzato dall’evidenza di traumi multipli e ripetuti nei bambini di pochi mesi di vita (nella maggior parte sotto l’anno) causati da maltrattamento da parte dei familiari o delle persone che ne dovrebbero avere cura. Su questo particolare quadro clinico (danni cerebrali, emorragie retiniche, fratture degli arti), provocato in genere indirettamente da violenti scossoni o addirittura da traumi diretti, è stata richiamata l’attenzione negli Stati Uniti fin dal 1974 (Shaken Baby Syndrome, Caffey J: Pediatrics 54:396-403, 1974). L’incidenza del maltrattamento come causa di danno cerebrale in età pediatrica è difficilmente valutabile. Molti casi rimangono infatti nascosti o, nell’evenienza di un ricovero ospedaliero, vengono riportati dai familiari, come esiti di cadute spontanee o comunque di un accidente. Dipenderà perciò dall’educazione del medico e dalla sua attenzione al problema la capacità di riconoscere l’esatta natura della lesione e di predisporre quindi le misure atte ad evitare il ripetersi dell’accidente. E’ noto in effetti come un bambino percosso correrà un rischio assai elevato di ulteriori maltrattamenti una volta riammesso in famiglia.
Per sottolineare l’importanza del problema, bisogna ricordare che circa la metà dei bambini maltrattati in famiglia presentano lesioni cerebrali, le quali, nel 95% dei casi, sono di entità severa. L’80% delle morti da lesione traumatica cerebrale nel bambino sotto i 2 anni è ritenuta essere causata da maltrattamento familiare (American Academy of Pediatrics Committee on Child Abuse and Neglect: Pediatrics 92:872-875, 1993).
L’esatta natura delle cause che portano al maltrattamento o la natura delle lesioni è stato oggetto di numerose discussioni: lo scuotimento violento del bambino, afferrato per il braccio, nel tentativo, ad esempio, di interrompere un pianto o di insistere perché un ordine sia eseguito ha portato alla definizione di “bambino scosso” ed all’individuazione del meccanismo di realizzazione del danno cerebrale nel violento scuotimento del capo, con dislocazione delle strutture nervose in esso contenute, in relazione al suo alto peso, in paragone al resto del corpo, ed alla debole muscolatura del collo in questa fascia d’età. La presenza di fratture craniche ha invece indirizzato l’attenzione verso lesioni da impatto diretto (ad esempio, schiaffo, pugno o spinta violenta contro un muro, etc.) e giustificato la dizione di “trauma inflitto”. Altri Autori hanno sottolineato relazioni più difficili da individuare, come danni sostenuti dal bambino a seguito della negligenza più o meno voluta del tutore, da cui il termine “bambino negletto”.
Qualsiasi sia il meccanismo del danno, alcune caratteristiche sono comuni, ad esempio la prevalenza del sesso maschile sia fra le vittime (60% bambini, 40% bambine) così come fra gli agenti (il padre o il patrigno è responsabile nel doppio dei casi rispetto alla madre). Più specificatamente, le madri sono responsabili in circa un sesto e la baby-sitter in circa il 17% dei casi, quest’ultima essendo una cifra particolarmente allarmante se si considera il sempre crescente coinvolgimento della madre in attività lavorative extra domestiche.
Il maltrattamento del bambino è comunque un fenomeno che interessa tutte le classi sociali, indipendentemente dal livello socio-economico o educativo. Esso può rappresentare la risposta ad uno stato di frustrazione o a tensioni sociali che trova la sua causa immediata nell’irritazione indotta dal pianto incessante del bambino o in una sua eccessiva vivacità. In alcuni casi lo “scuotimento” violento del bambino può essere visto dal familiare come un trauma minore rispetto ad una percossa diretta, anche se purtroppo il danno cerebrale inflitto può essere molto più grave. Si tratta infatti di lesioni emorragiche, di lacerazioni cerebrali, di danni assonali diffusi che portano ad esiti gravi con altissimi costi sociali, come atrofie cerebrali focali o generalizzate, deficit neurologici, crisi epilettiche, ritardo dell’apprendimento, spasticità, cecità.
Come in molti campi della medicina, anche per quanto riguarda questo specifico argomento, appare evidente che l’educazione e la maggiore consapevolezza pubblica del problema costituiscono l’unica possibilità per una reale prevenzione, da qui l’interesse di Ali di Scorta. L’intervento “medico” rischia infatti di essere quasi sempre necessariamente tardivo ed in molti casi insufficiente per la gravità delle lesioni indotte.
Prof. Concezio Di Rocco







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Un anno dopo…


E’ trascorso un anno dall’inizio della mia esperienza nel Reparto di Neurochirurgia Infantile del Policlinico A. Gemelli di Roma. Non sono entrata sola all’undicesimo piano. Ero affiancata come oggi d’altronde, dall’Associazione “Ali di Scorta”. Insieme, forti anche dell’esperienza accumulata in un altro reparto pediatrico, abbiamo cominciato ad affiancare il lavoro del personale medico ed infermieristico del reparto, per migliorare la “qualità della vita” dei piccoli pazienti e delle loro famiglie. Questo reparto è l’unico a Roma dove si eseguono esclusivamente interventi neurochirurgici su bambini. Ci sono 14 letti sempre costantemente occupati. La lista di attesa purtroppo è molto lunga, sia il cospicuo numero di pazienti sia per un accesso alla sala operatoria limitato a 2-3 giorni la settimana. I casi urgenti hanno la, priorità. Per urgenti s’intendono, in linea di massima, i tumori cerebrali e i traumi cranici. In questo reparto accedono anche tanti bambini portatori di malformazioni congenite cerebrali, come la spina bifida, l’idrocefalo ecc. Prima di addentrarmi nello specifico, penso che sia necessario descrivere la mia funzione di psicologa all’interno di un reparto ospedaliero, dove le famiglie accedono, non perché hanno qualche problema psicologico, bensì per far curare il bambino da una malattia organica. Dall’esperienza mia e di colleghi più esperti, in altri reparti pediatrici, ho consolidato l’idea che se uno psicologo si propone in maniera tradizionale, ovvero in una stanza-studio, con un linguaggio simbolico-interpretativo, con una scansione temporale degli incontri, ha poche possibilità di svolgere una funzione terapeutica. Ciò è dovuto principalmente alla mancanza di domanda di aiuto da parte di queste famiglie. L’atteggiamento iniziale delle famiglie nei confronti dello psicologo è spesso di distacco, per il timore di essere giudicati e valutati come individui e soprattutto come genitori. E’ per superare questa paura e stereotipo associato spesso alla mia professione, che mi propongo in maniera molto informale. Questo non per bluffare, bensì per il rispetto della sofferenza dei genitori e del bambino. La mia entrata nella famiglia avviene in punta di piedi. Giorno dopo giorno mi propongo come accompagnatore del lungo viaggio della malattia, con l’obiettivo, in primis, di contenere l’angoscia provocata dall’avere un bambino gravemente malato. Non ho bacchette magiche per risolvere i problemi, ma attraverso la condivisione, è possibile alleggerire il peso psicologico della malattia. Poi, con il trascorrere dei giorni, quando i genitori si sentono più rassicurati nei miei confronti, mi permetto di addentrarmi, sempre con rispetto e con il loro permesso, nelle modalità relazionali familiari. E’ in questa fase che le problematiche si differenziano secondo la malattia del bambino. Da una parte, abbiamo le patologie che evocano un’angoscia di morte, dall’altra quelle che comportano un handicap permanente. Di fronte ad una patologia tumorale, che colpisce un bambino fino ad allora sano, le difficoltà nascono principalmente dai seguenti temi: cosa dire al bambino o adolescente riguardo alla malattia, come vivere nell’incertezza della prognosi, la diversità tra marito-moglie-figli nel convivere con la sofferenza, cosa dire ai fratelli, come gestire la separazione e l’assenza prolungata da casa, ecc. In neurochirurgia si assiste essenzialmente alla fase della diagnosi della malattia tumorale. Lo shock, l’incredulità, la disperazione, la sensazione di non farcela, sono sentimenti inevitabili. Il mio compito è di porre le basi affinché la famiglia possa imparare a gestire la malattia. Diverse sono le difficoltà che le famiglie devono affrontare con un figlio affetto da una patologia congenita ed invalidante. In molte di queste famiglie, il tempo si è fermato e tutto ruota attorno alla malattia che crea un arresto del processo di sviluppo. Questi bambini hanno bisogno di una costante assistenza e di una neuroriabilitazione quotidiana. La fase di shock, avviene in genere, al momento della nascita del bambino e i sensi di colpa, di iperprotettività o di negazione, possono ostacolare il raggiungimento di un nuovo equilibrio. Accanto a questi vissuti della malattia, le difficoltà lavorative, economiche sono molto frequenti. I genitori, inoltre, si trovano ad affrontare anche l’impatto con termini medici, nuovi e incomprensibili. A volte, la sudditanza che la famiglia prova nei confronti del medico può far aumentare la confusione e l’ansia. In questi casi, la mia funzione sarà quella di mediare tra la cultura medica e quella della famiglia, aiutando il genitore a capire meglio e incoraggiandolo a non temere di fare domande chiarificatrici ai medici. Dopo un anno di lavoro c’è la voglia di fare qualcosa di nuovo per superare tanti limiti che si presentano tutti i giorni. Il tempo da dedicare ai bambini e ai loro genitori non è mai sufficiente. Diverse volte entro in contatto con ragazzi intenzionati a spendere alcune ore nell’intrattenimento dei bambini. Faccio riferimento a ragazzi e ragazze perché da esperienze passate si è evidenziato che questi sono capaci, più degli adulti, a rapportarsi con un bambino mettendo da parte la malattia di cui è colpito. I ragazzi trattano quindi il piccolo paziente come un qualsiasi altro bambino, senza proteggerlo o assecondandolo in tutto, perché malato. Per i bambini diventa un’esperienza da cui ricevere un feedback di normalità. I ragazzi che con entusiasmo si propongono per l’attività ludica in reparto, però, con molta frequenza non continuano questa iniziativa. Mi sono interrogata su questi “abbandoni” e penso che forse sarebbe necessario preparare i volontari, attraverso un piccolo corso, per evitare o almeno ridurre questo fenomeno. Colgo l’occasione per lanciare un appello a chi fosse interessato a questa iniziativa e chiedo l’immancabile partecipazione dell’Associazione “Ali di Scorta”, con l’augurio di volare sempre più in alto.
Dr.ssa Simona Di Giovanni



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28/07/2009 17:37

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GLI ANNI DELLA PRIMA INFANZIA (DAL PRIMO AL TERZO ANNO DI VITA):
CENNI SULLO SVILUPPO COGNITIVO E MOTORIO
(Dr.ssa Simona Di Giovanni)

La preoccupazione sui possibili esiti cognitivi e/o motori legati alla presenza di una patologia cerebro-spinale è un pensiero che accomuna molti genitori con un figlio affetto da una di tali malattie. Spesso i genitori mi domandano quanto le acquisizioni raggiunte fino ad allora dal proprio bambino rientra o si discosta dallo sviluppo di un bambino coetaneo sano. Questo articolo prende quindi spunto da questa esigenza dei genitori di conoscere i parametri di riferimento entro cui osservare e leggere lo sviluppo del proprio figlio. Se per alcuni è doloroso vedere che il proprio bambino è indietro rispetto alle normali tappe dello sviluppo, per altri, la precocità e la versatilità d’ingegno vengono vissute come compenso rispetto alla patologia che assume sempre più un aspetto alchemico.
Gli anni della prima infanzia (da 0 a 3 anni di età) sono caratterizzati da cambiamenti rapidi.
Dal punto di vista motorio, le abilità grossolane si sviluppano rapidamente durante la prima infanzia. La maggior parte dei bambini cammina senza aiuto entro i 18 mesi, per poi camminare sempre più rapidamente con meno cadute. A circa 36 mesi, il bambino sviluppa l’equilibrio e si poggia brevemente su un piede solo. La progressione delle capacità di avvicinarsi ad un piccolo oggetto, di coglierlo e di manipolarlo è il risultato del miglioramento delle abilità di motricità fine.
Da un punto di vista cognitivo, la prima infanzia è caratterizzata dal passaggio dal pensiero sensomotorio al pensiero simbolico (fra i 18 e i 24 mesi). Durante il periodo sensomotorio il bambino assimila gli elementi dell’ambiente soprattutto mediante il tatto, l’osservazione e l’ascolto. Fino ad un anno, i comportamenti del bambino sono finalizzati alla conservazione delle condotte: il bambino trascura ciò che vi è di nuovo nelle cose e negli avvenimenti e cerca sempre di assimilarli ai vecchi schemi. Ma, a partire dai 12-18 mesi, il bambino diventa capace di cercare e scoprire mezzi nuovi mediante una sperimentazione attiva dei propri spostamenti e dei rapporti che esistono tra gli oggetti come tali. La ricerca di un oggetto precedentemente nascosto avviene ancora seguendo gli spostamenti visibili delle posizioni in cui l’oggetto è stato effettivamente visto. Sia gli oggetti sia le persone vengono concepiti d'ora in poi come fonti permanenti e autonome di azioni. Il bambino impara a dissociare il suo io dal mondo esterno. La sua azione diventa semplicemente una causa tra le altre cause esterne indipendenti da sé e smette di concepire la propria attività come centro del mondo.
Un bambino di 18 mesi di abilità medie può fare una torre di quattro cubi. Dopo circa un anno a seguito della ripetizione del gioco e con un maggior controllo, il bambino ne potrà impilare otto. La maggior parte dei bambini ad un anno e mezzo mostrano interesse per i pastelli e potranno prenderne uno con la mano chiusa a pugno per scarabocchiare spontaneamente su una superficie, con l’obiettivo di lasciare una traccia. Ma solo attorno ai tre anni il bambino apprende a tenere correttamente il pastello in mano per disegnare un cerchio. Fra i tre e i quattro anni il bambino cerca di raffigurare qualcosa, in genere una persona, anzi la persona, perché con un unico schema grafico rappresenta chiunque.
Dai due anni in poi il bambino accede all’intelligenza rappresentativa attraverso il pensiero simbolico, man mano che diventa capace di formare immagini mentali (e quindi di evocare un aggetto anche in sua assenza) e a risolvere problemi mediante tentativi ed errori mentali. Dai 18 mesi il riconoscimento da parte del bambino che un oggetto può rappresentarne un altro diventa molto esplicito nel gioco. Un cubo può diventare una macchina e un secchio un cappello. Sempre a quest’età il bambino usa anche simboli o azioni per imitare eventi passati. Per esempio, ore dopo che ha visto la mamma cucinare, il bambino può iniziare a imitare l’evento con le sue pentoline giocattolo.
In questo periodo diventa possibile una rievocazione vera e propria della sua azione tra gli altri avvenimenti, collocandola in un tempo che determina il ricordo della propria attività. Inoltre, ora che ha raggiunto la permanenza completa dell’oggetto, può trovare un oggetto nascosto nonostante non abbia assistito al momento in cui è scomparso l’oggetto. Il bambino quindi prevede in anticipo quali azioni avranno successo e quali falliranno e la sua ricerca non ha più bisogno di essere controllata ad ogni tappa dall’esperienza ma viene guidata a livello di combinazione mentale. Egli modifica dentro di sé la cosa che guarda per raggiungere delle soluzioni non visibili del suo campo visivo, per esempio, ingrandire in anticipo una fessura per togliere un oggetto nascosto.
Tuttavia attorno ai 3 anni, il bambino rimane incapace di adottare il punto di vista di un’altra persona, continuando a considerare il mondo in maniera egocentrica e dando per scontato che gli altri la pensino e sentano le cose esattamente come lui.
Vorrei concludere questa rapida carrellata sullo sviluppo cognitivo e motorio della prima infanzia, (omettendo volutamente un’area importante, quella del linguaggio che tratterò nel prossimo numero del giornalino), sottolineando l’importanza del gioco per la crescita del bambino. Il gioco e l’attività di imitazione che lo caratterizza, consentono un processo di interiorizzazione e quindi di formazione dell’immagine mentale dell’oggetto esterno, fondamentali per la nascita dell’intelligenza e della costruzione della realtà del bambino.


MOTRICITA’

GROSSOLANA
MOTRICITA’

FINE
ABILITA’

SOCIALI/EMOTIVE
CAPACITA’

INTELLETTUALI

18 MESI 18 MESI 18 MESI 18 MESI
Cammina rapidamente

Cade di rado

Corre rigidamente

Sale le scale tenendosi con una mano

Si siede in una seggiolina

Si arrampica su una sedia per adulti

Tira una palla


Costruisce una torre di quattro tubi

Fa cadere 10 cubi in un contenitore

Scribacchia Spontaneamente

Imita un tratto verticale

Infila tre cubi in una
tavola a stampo
Si toglie un indumento

Si alimenta da solo e rovescia il cibo

Offre un piatto vuoto

Abbraccia una bambola

Tira un giocattolo




Indica parti del corpo nominate

Sviluppa una comprensione della permanenza dell’oggetto

Inizia a capire causa ed effetto

24 MESI 24 MESI 24 MESI 24 MESI
Corre bene senza cadere

Sale e scende le scale

Da calci al pallone








Costruisce una torre Di sei o sette blocchi

Allinea due o più cubi per formare un treno

Imita un tratto orizzontale con la matita

Comincia a fare segni circolari

Inserisce un blocco quadrato in una scatola di performance
Usa un cucchiaio rovescia poco cibo

Segnala a voce il bisogno del bagno

Si mette un indumento semplice

Verbalizza esperienze immediate

Si riferisce a se medesimo per nome




Forma immagini mentali di oggetti

Risolve problemi per tentativi di errori

Comprende un semplice concetto di tempo







36 MESI 36 MESI 36 MESI 36 MESI
Sale le scale alternando i piedi

Cammina bene sulle punte

Pedala su un triciclo

Salta da un gradino salta due o tre volte
Copia un cerchio

Copia i ponti con i cubi

Costruisce una torre di 9 o 10 cubi

Disegna la testa di una persona
Si preoccupa delle azioni degli altri

Gioca in maniera cooperativa in piccoli gruppi

Sviluppa l’inizio delle vere amicizie

Gioca con amici immaginari
Chiede “perché”

Comprende la routine quotidiana

Apprezza eventi speciali quali i compleanni

Si ricorda e recita poesie per bambini

Ripete tre numeri








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28/07/2009 17:38

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COMBATTERE LA GRANDE “C”
Un’esperienza inglese nel mondo dell’Oncologia Pediatrica
(Dr.ssa Simona Di Giovanni)

In Gran Bretagna, ogni giorno a 5 bambini viene diagnosticata un malattia tumorale. A Londra, città che conta un totale di abitanti pari a quelli di Roma e di Milano messi insieme, ci sono quattro centri di Oncologia Pediatrica: The Royal Marsden Hospital, The Great Ormond Street Hospital for Sick Children, The University College Hospital e The Royal London Hospital. Ogni centro ha la sua associazione (Charity) di genitori di bambini malati di cancro, che lavora a fianco di altre associazioni operanti a livello nazionale.
Quelle più direttamente impegnate nell’ambito pediatrico sono: la CLIC – (Cancer and Leukaemia in Childhood) e la Sargent Cancer Care for Children. Oltre a queste ci sono più di 50 associazioni, che pur rivolgendosi prevalentemente al malato adulto, si occupano anche di bambini.
Tutte hanno come obiettivo l’informazione e il sostegno emotivo e finanziario al malato e alla sua famiglia.

L’informazione
La parola d’ordine di queste associazioni è l’informazione. E’ possibile trovare con grande facilità opuscoli riportanti un elenco di tutte le associazioni a sostegno del malato di cancro e della sua famiglia.
L’importanza della divulgazione dell’informazione nasce come risposta ad un bisogno di sapere e di comprendere da parte di tutte le persone coinvolte, primo fra tutti il paziente. Infatti, anche il piccolo paziente è a conoscenza della sua diagnosi. In ospedale, nelle sale giochi e nelle stanze di svago per gli adolescenti, ci sono opuscoli per comprendere meglio la malattia, il trattamento e consigli su come affrontare le diverse situazioni cui andranno incontro. Il fatto che i piccoli pazienti siano a conoscenza della propria diagnosi permette agli operatori di affrontare apertamente le paure del bambino e dell’adolescente e di aiutarli in modo specifico attraverso diverse attività.
Ogni associazione fornisce agli interessati materiale informativo, volto a far conoscere la malattia da un punto di vista medico, con le sue possibili reazioni psicologiche ed emotive. Le associazioni si avvalgono di giornalini per divulgare ricerche e studi importanti sulla malattia, attività svolte, storie di pazienti e della loro malattia, scambi di informazioni, etc. A richiesta, è possibile ricevere per posta, entro 24 ore, tutto il materiale informativo.
Le associazioni mettono inoltre a disposizione una “helpline”, ovvero una linea telefonica, a cui poter chiamare per ricevere sostegno.

Le pagine Web
Ogni associazione ha il suo sito web, dove è possibile trovare informazioni sulla malattia e sulle associazioni stesse.
I siti Web delle associazioni pediatriche meritano di essere visitati(www.clic.uk.com – www.sargent.org). Appaiono graficamente ben fatti e facili da “navigare”. Le informazioni contenute nelle pagine Web sono destinate a tutte le età e ai diversi interessi.
I siti includono aree interattive. C’è lo spazio per i giovanissimi (sotto gli undici anni) in cui è possibile chattare con altri pazienti, raccontare storie e la propria esperienza di malattia. C’è la discussione on line per gli adolescenti, attraverso la quale potersi scambiare idee, mantenere contatti e portare avanti iniziative.
Un cartone animato interattivo, chiamato “Capitan Chemio”, permette ad ogni bambino di identificarsi nel super eroe, e di combattere per la propria guarigione con l’aiuto di validi compagni di avventura, chiamati Vincristina, Etoposide, Prednisone! (www.royalmarsden.org/captchemo)

Attività finanziate
Le attività che queste associazioni finanziano sono principalmente:
- terapie domiciliari da parte di personale medico e infermieristico;
- ricerca scientifica;
- sostegno per gli aspetti emotivi e sociali della malattia e organizzazione di gruppi di auto-aiuto da parte di assistenti sociali;
- attività di gioco terapeutico da parte di terapisti del gioco (play therapist);
- sostegno finanziario alle famiglie, secondo la necessità;
- soggiorni in case vicino all’ospedale per le necessità di cura del bambino;
- soggiorni in case di villeggiatura;
- viaggi ed escursioni per bambini e adolescenti malati.

L’assistenza domiciliare
Le associazioni mettono a disposizione infermieri professionali, per eseguire, quando possibile, esami di controllo a domicilio, limitando così le visite del bambino in ospedale e consentendogli una continuità con la scuola e una maggiore permanenza a casa.
L’assistenza domiciliare al bambino terminale è garantita, oltre che da un’équipe di Cure Palliative dell’ospedale, da personale arruolato dalle associazioni, quali medici, infermieri e terapisti del gioco, per le famiglie che scelgono di trascorrere la fase terminale della malattia a casa.

La ricerca scientifica
La ricerca scientifica è implementata attraverso aggiornamenti, borse di studio, attività di connessione tra i diversi Centri.

Assistenti sociali e terapisti del gioco
Pur disponendo l’ospedale di proprio personale, quali psicologi, assistenti sociali e terapisti del gioco, le associazioni finanziano altre figure stabili, quali assistenti sociali e terapisti del gioco.
Le attività svolte da questi operatori, in collaborazione con il personale ospedaliero, sono:
- supporto agli aspetti emotivi, sociali e finanziari, secondo i bisogni delle famiglie;
- attività di gioco finalizzate ad alleviare le paure del bambino e a familiarizzare con le procedure del trattamento, attraverso giocattoli che riproducono gli strumenti medici più temuti (siringhe, macchine per esami radiologici):
- organizzazione di gruppi di auto-aiuto per genitori, pazienti e fratelli di pazienti.

Gruppi di auto aiuto
I gruppi di auto aiuto sono molto numerosi e si basano sul concetto che la condivisione e lo scambio di informazioni sono un valido strumento per ricevere un aiuto emotivo e pratico, nel difficile momento della malattia. Esistono gruppi per genitori di bambini in cura, per bambini guariti e per genitori cui è morto un bambino. Esistono inoltre gruppi per adolescenti che hanno o che hanno avuto un tumore, che prevedono, oltre al reciproco supporto, anche attività di svago e ricreative da svolgere insieme. Ci sono anche gruppi di sostegno specifici per fratelli di pazienti, con relative attività.

Le case
Ogni associazione dispone di diverse case vicino agli ospedali, dove le famiglie possono soggiornare durante il periodo di trattamento, ma anche case situate in località di villeggiatura, per offrire un periodo di distrazione e di riposo.

Gite e vacanze
Le associazioni organizzano gite, escursioni e vacanze gratuite per i pazienti. Questi momenti rappresentano degli appuntamenti annuali per mantenere contatti tra chi ha o ha avuto una stessa esperienza di malattia. Sono previsti anche soggiorni vacanza, dove i pazienti adolescenti possono seguire programmi educativi, ricreativi e psicoterapeutici, secondo le necessità.

Attività promosse per recuperare fondi

Per sostenere tutte queste attività, le associazioni chiedono di essere aiutate attraverso:
- l’organizzazione di eventi di beneficenza;
- la partecipazione e l’acquisto di biglietti per gli eventi di beneficenza;
- le donazioni da parte di privati;
- le donazioni da parte di aziende, incentivate dai benefici fiscali e pubblicitari;
- il sostegno all’attività commerciale dei negozi di proprietà delle associazioni. Si tratta di punti vendita di oggetti e capi di abbigliamento, spesso di seconda mano. Questi negozi sono numerosissimi e distribuiti su tutto il territorio nazionale;
- la vendita di oggetti di produzione delle associazioni, quali biglietti di auguri, CD, etc;
- l’organizzazione di viaggi come “tour-operator”;
- la creazione di una carta di credito;
- l’attività di volontariato a sostegno delle diverse attività.






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28/07/2009 17:39

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“Bloodless surgery” in chirurgia
Tecniche per il risparmio di sangue in chirurgia.
(Del Dott. Francesco Velardi)

Nella storia della chirurgia ogni progresso nello sviluppo di complesse tecniche chirurgiche è stato sostenuto dall’acquisizione di metodi più affidabili ed efficienti per il controllo delle perdite ematiche e per il loro reintegro nella fase intra e post-operatoria. Per numerosi anni, infatti, il rischio di provocare emorragie incontrollabili e l’insorgenza di infezioni hanno rappresentato i limiti più difficilmente sormontabili e la causa più frequente del fallimento di procedure terapeutiche peraltro efficacemente sviluppate. Nella fase storica attuale i limiti che vengono riconosciuti alla possibilità di pianificare ed eseguire un intervento chirurgico si sono notevolmente ampliati, grazie ai progressi realizzati nella diagnostica, nelle tecniche chirurgiche e nell’assistenza pre e post-operatoria dei pazienti. Una preoccupazione, comunque persiste, tra le altre, ed è riferita ai rischi che la trasfusione di sangue allogenico (derivante da donatore diverso dal paziente stesso) comporta, soprattutto se notevoli volumi sono richiesti durante e subito dopo l’intervento. Una trasfusione di sangue allogenico va, infatti, considerata alla stregua di un trapianto di organo, del trapianto di un organo liquido. Fino a pochi anni orsono un qualunque medico esperto avrebbe considerato una trasfusione ematica allogenica come una procedura virtualmente esente da rischi. Nonostante nel corso degli ultimi anni i progressi nelle tecniche di laboratorio riferite alle procedure di raccolta, catalogazione, conservazione e trasporto delle unità di sangue siano stati notevoli, riducendo drasticamente gli incidenti riferibili alla procedura di trasfusione ematica, attualmente un paziente che riceva una trasfusione allogenica affronta ancora il rischio (3 possibilità su 10.000) di contrarre una malattia grave e probabilmente fatale. I rischi possono essere di tipo infettivo (infezioni batteriche = 1:2.500 casi; epatite virale =1:5.000 casi; infezione da virus della leucemia-linfoma umano a cellule T = 1:420.000 casi) o non-infettivo (reazione emolitica acuta =1:25.000 unità trasfuse; alloimmunizzazione riferita ai globuli rossi = circa l’8% dei pazienti trasfusi con globuli rossi allogenici, febbre, reazione non emolitica o brividi senza febbre = 1:100 unità di globuli rossi trasfuse). Ancora più recentemente è stato posto l’accento sugli effetti immunosoppressivi che una trasfusione allogenica comporta, come dimostrato dall’incremento di episodi di infezioni post-operatorie in pazienti che avevano ricevuto una trasfusione allogenica. Ragioni mediche, implicazioni etiche, medico-legali, economiche, nonché il rispetto di convinzioni religiose hanno incrementato l’attenzione dei chirurghi verso un più razionale utilizzo delle trasfusioni ematiche allogeniche e favorito la ricerca di tecnologie e metodologie chirurgiche che permettessero di ridurre o addirittura escludere il ricorso all’utilizzazione di sangue eterologo. Nonostante le preoccupazioni espresse dagli esperti, i tentativi di ridurre le procedure trasfusionali nel corso di interventi chirurgici effettuati in età infantile sono stati rari. La difficoltà di controllare e gestire perdite ematiche anche relativamente modeste in pazienti in giovane età, quindi di bassa massa corporea e conseguentemente, di ridotta volemia, giustificano la riluttanza di chirurghi, anestesisti e terapisti intensivi, ad intraprendere complesse procedure chirurgiche senza il supporto di un’adeguata trasfusione ematica.
Al momento, tuttavia, grazie ai progressi ottenuti nelle tecniche di terapia intensiva, allo sviluppo di adeguate apparecchiature sanitarie e di tecniche chirurgiche specifiche, la possibilità di effettuare interventi chirurgici anche complessi in paziente in età precoce senza dover ricorrere alla pratica della trasfusione allogenica, è divenuta reale. Questi progressi sono stati determinati principalmente:
- dalla possibilità di ottimizzare le condizioni ematologiche preoperatorie del piccolo paziente grazie alla somministrazione di “Eritropoietina Umana Ricombinante” (r-HuEPO). Questa sostanza, individuata nel 1977, è stata resa disponibile per uso clinico recentemente dopo che la sua sequenza aminoacida è stata determinata e riprodotta con metodi di ingegneria genetica. Essa è in grado di stimolare elettivamente la maturazione degli eritrociti e può essere utilizzata in fase pre-operatoria e post-operatoria, sia per correggere eventuali stati anemici, sia per accelerare il recupero post-operatorio;
- dall’introduzione e la diffusione di sofisticati strumenti chirurgici (elettrobisturi ad alta potenza, che permettono di eseguire l’incisione cutanea e la dissezione in maniera praticamente esangue, osteotomi ad alta velocità, che permettono di eseguire craniotomie ed osteotomie in genere in maniera altrettanto esangue, aspiratori ad ultrasuoni, che permettono di emulsionare e quindi asportare più rapidamente le masse neoplastiche, sistemi di fissaggio rapido dell’osso, in titanio o in materiali riassorbibili, che permettono di ridurre drasticamente i tempi dell’intervento chirurgico);
- dai progressi ottenuti nella comprensione della fisiopatologia dell’anemia nel bambino, che ha permesso di meglio conoscere i limiti ai quali era possibile spingere, in tutta sicurezza, il paziente nella fase intra e post-operatoria;
- dal miglioramento delle metodologie di applicazione ai pazienti pediatrici delle cosiddette tecniche di auto-trasfusione. Queste tecniche consistono nella sottrazione pre o intra-operatoria di volumi predeterminati di sangue autologo (dello stesso paziente), sostituito da volumi equivalenti di soluzioni isotoniche. La somministrazione, alla fine dell’intervento o in qualsiasi momento le condizioni emodinamiche del paziente lo rendano necessario, dei volumi di sangue sottratto in fase pre-operatoria o all’inizio dell’intervento chirurgico permetterebbe di ridurre o anche escludere la necessità di fare ricorso alla trasfusione di volumi equivalenti di sangue omologo (di un altro uomo, allogenico). L’applicazione delle tecniche di auto-trasfusione richiede una specifica esperienza da parte dell’anestesista e del chirurgo, perché entrambi si trovano ad operare su un paziente che è stato condotto alla fase operatoria in stato di emodiluizione bilanciata, allo scopo di minimizzare le perdite di elementi corpuscolati del sangue (in particolare i globuli rossi). Da qui la necessità di una specifica ed approfondita conoscenza della fisiopatologia dell’anemia nel bambino, allo scopo di evitare, da una parte il fallimento della procedura, dall’altra l’esposizione del piccolo paziente ai rischi di ipovolemia, ipossia, anomalie della coagulazione;
- dallo sviluppo di efficienti ed affidabili apparati per il recupero intraoperatorio del sangue e della loro introduzione nella pratica chirurgica pediatrica. Tale procedura consiste nell'aspirazione dal campo operatorio del sangue e dei liquidi di lavaggio, con successivo lavaggio, filtrazione e concentrazione per centrifugazione, allo scopo di recuperare i globuli rossi. Nel corso della procedura i globuli bianchi, le piastrine, il plasma ed i fattori della coagulazione vanno persi nella fase.

Sebbene le procedure descritte permettano di ridurre, ed in molti casi abolire, la necessità di una trasfusione allogenica anche nel corso di interventi chirurgici complessi, effettuati in pazienti in età pediatrica, numerosi limiti sono ancora presenti. L’applicazione di tali tecniche, infatti, necessita della perfetta condizione cardiaca e respiratoria del paziente, richiede spesso tempi lunghi per la programmazione della terapia con r_HuEPO e la stabilizzazione delle normali condizioni ematologiche dopo l’eventuale prelievo ematico pre-operatorio, per cui tali tecniche non sono applicabili quando i tempi per il trattamento chirurgico sono stringenti, può causare un’alterazione delle capacità coagulativa del sangue, in conseguenza della deplezione di piastrine e fattori della coagulazione che si determina nelle fasi di recupero intraoperatorio del sangue; le tecniche di recupero intraoperatorio del sangue, in particolare, non possono essere applicate nel caso di interventi chirurgici mirati all’asportazione di neoplasie, in quanto non vi è ancora totale sicurezza che, durante il processo di filtrazione e centrifugazione, le cellule neoplastiche, liberate nei liquidi di lavaggio e nel sangue recuperato dal campo operatorio durante l’intervento, siano selettivamente e totalmente rimosse dal sangue preparato per la reinfusione.
Entusiasmanti prospettive sono attese per il prossimo futuro, e probabilmente molti di questi limiti verranno superati attraverso l’ulteriore perfezionamento delle tecniche e delle attrezzature.





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28/07/2009 17:39

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Vivere con un bambino disabile: alcuni spunti di riflessione

Cosa succede da un punto di vista psicologico nei genitori prima, e nella famiglia allargata poi, quando nasce un figlio von una patologia congenita che comporta una disabili? Questa è la domanda a cui questo articolo tenterà di rispondere non con l’intenzione di individuare pensieri rigidamente costruiti, quanto con la speranza che, chi vive in prima linea questo problema possa in minima parte ritrovarsi.
Ritrovarsi proprio perché la prima reazione alla diagnosi di una malattia organica spesso cronica e invalidante ad esordio neonatale o postnatale è quella di perdere ogni certezza che si aveva precedentemente. Questa fase iniziale acuta di shock e di incredulità, con conseguenti reazioni emotive (pianti, esplosive variazioni d’umore) viene superata entrando in una fase post-acuta che avrà in genere, insieme alla prima, un suo svolgimento in un reparto ospedaliero.
Il primo ricovero di solito, tra i più lunghi di tutta la “carriera”, ha un onere sia operativo, derivante dai compiti dell’assistenza – che un onere soggettivo legato alla ricerca di efficaci meccanismi di difesa che permettono di elaborare la perdita di validità del bambino e dell’intero sistema familiare.
Immediato è l’impatto sulle aspettative che un genitore ha nei confronti del proprio figlio. Quello che un genitore si aspetta da un figlio viene deciso spesso molto prima del concepimento e sovente non lo decide neanche solo lui. Queste aspettative possono essere costruite dai suoi stessi genitori (i nonni del bambino) in maniera tale che lui potesse generare un figlio capace di portare avanti un bagaglio antico di aspettative che vengono quindi trasmesse di generazione in generazione.
Quando il figlio reale non corrisponde al figlio ideale si possono vivere diversi sentimenti – di vergogna, di fallimento per essere stato incapace a generare un figlio perfetto (soprattutto nei confronti della famiglia d’origine, propria e acquisita), di rifiuto, di desiderare di “rimettersi il bambino dentro la pancia per poterlo a questo punto far nascere sano”.
A questo tumulto di emozioni e pensieri fa seguito quasi inevitabilmente una fase di depressione mista a sensi di colpa, di ansia e di negazione.
La matrice di queste reazioni è spesso la rabbia e l’aggressività che la malattia suscita per le numerose rinunce ad ogni spazio di tempo per la realizzazione di una propria vita personale e familiare. Ma appena ci si accorge (a livello inconscio) di provare rabbia nei confronti di quell’”esserino piccolo e indifeso, che dopo tutto è nostro figlio e a volte nonostante, imperfezioni fisiche ci assomiglia” scattano sensi di colpa che possono portare ad un atteggiamento di iperprotezione. Un’altra possibile reazione al sentimento di rabbia prodotta da questa situazione è la negazione di qualsiasi differenza tra il proprio bambino e i bambini sani. In questi casi la sottovalutazione dei problemi e la minimizzazione dell’handicap porta ad una eccessiva responsabilizzazione del bambino; si pretende che il bambino sia come gli altri.
Un genitore con atteggiamento iperprotettivo nei confronti del proprio figlio (per es. non pretendere che mangi cibi solidi, o che mangi seduto o in maniera autonoma oppure sottoporlo ad una adeguata neuroriabilitazione) spesso ha paura che il figlio cresca. In questo modo eviterà o prorogherà il confronto con i suoi limiti e con i suoi coetanei. La crescita infatti, evidenzia sempre più il divario, la “forbice” tra il bambino sano e quello con disabilità; negli anni successivi, lo scarto tra i due, per quanto riguarda l’acquisizione delle tappe di sviluppo psicomotorio, diventa sempre più grande.
Il genitore sempre pronto a fare qualcosa al posto del figlio, non si accorge di ciò che il bambino non può fare e ad un livello più profondo, “ripara” la non perfezione del figlio. Il rischio è che il bambino perda delle grosse occasioni di crescita e di espressione (anche se con tempi più lunghi delle proprie potenzialità. Il genitore si accontenta di una parte del bambino per timore di affrontare il dolore che si prova nel guardare il proprio figlio non perfetto.
Se crescere ed educare un essere umano è per un adulto responsabile un compito molto difficile, questo percorso, in presenza di una malattia con disabilità, può risultare ancora più complesso.
Spesso lo stato di sofferenza che la malattia impone al bambino porta il genitore a risparmiare al piccolo qualsiasi tipo di irritazione. Questa situazione “perfetta” crea però nel bambino una scarsissima tolleranza alla frustrazione. Nel corso del tempo questa ostacolerà la capacità di trovare una propria soluzione ai problemi, “di cavarsela da solo”, e contribuirà a sviluppare un senso di onnipotenza con l’illusione di poter fare a meno dell’appoggio dei genitori. Il genitore “perfetto” che interpreta troppo presto i bisogni del bambino, non gli dà il tempo di attribuire un significato al proprio bisogno. Per proteggere il proprio figlio finisce per sottrarlo alle sue stesse esperienze. Compito del genitore quindi non è quello di evitare al bambino tutte le frustrazioni ma di aiutarlo a superarle, stimolandolo ad attingere alle proprie risorse. Per diventare forti bisogna riconoscere di non poter fare tutto immediatamente.
I bambini che hanno vissuto lunghe e frequenti ospedalizzazioni possono manifestare le proprie ansie e paure attraverso attacchi di rabbia e di ira. Il genitore, anche lui carico degli stessi sentimenti, spesso non sa come affrontare questi attacchi. Il bambino ha bisogno di essere tranquillizzato e contenuto: spesso un abbraccio stretto e contenitivo fa sentire che il genitore è lì con loro e può calmare ansie e paure.
Simona Di Giovanni
www.sidigi@libero.it
Psicologa presso il reparto di NCH Infantile
Policlinico A. Gemelli


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28/07/2009 17:40

Gli ependimomi


I tumori cerebrali nei bambini rappresentano, dopo la leucemia, la patologia neoplastica di più frequente riscontro. Tali tumori possono trarre origine da qualsiasi parte del sistema nervoso, inclusi il midollo spinale ed i nervi: attualmente se ne conoscono circa settanta tipi diversi. Essi possono presentare un comportamento benigno o più o meno aggressivo. La conoscenza della natura della neoplasia si ottiene soltanto attraverso l’esame istologico (esame microscopico diretto del tumore asportato chirurgicamente). Le neoplasie del sistema nervoso più frequentemente riscontrate nei bambini sono l’astrocitoma (sede più comuni: ipotalamo-vie ottiche, cervelletto, troncoencefalo), il medulloblastoma, l’ependimoma e il craniofaringioma.
L’ependimoma è uno dei tumori di più difficile trattamento e con prognosi meno favorevole tra quelli del sistema nervoso centrale (8-10% dei tumori nei pazienti pediatrici). Questo tipo di neoformazione può essere localizzato sia a livello cerebrale (90% dei casi) che midollare (10%). Dal punto di vista istologico si distinguono forme meno aggressive (ependimoma) e forme maligne (ependimoma anaplastico, ependimoblastoma). I bambini affetti possono presentare sintomi e segni spesso aspecifici: cefalea episodica o persistente, associata a nausea, vomito, sonnolenza, difficoltà nel mantenere l’equilibrio e alterazioni della vista. Per tale motivo spesso è necessaria una consulenza specialistica per chiarire la natura del problema. La diagnosi di malattia si realizza generalmente attraverso le immagini radiologiche (tomografia computerizzata e risonanza magnetica) mentre lo studio del liquor può aiutare nel determinarne l’eventuale diffusione metastatica nelle vie liquorali. La terapia più efficace per l’ependimoma è rappresentata dalla chirurgia. Nella maggior parte dei casi in cui il tumore è situato nel midollo spinale la guarigione può essere ottenuta con la sua completa asportazione. In quest’evenienza l’intervento chirurgico risulta, di solito, tecnicamente meno impegnativo rispetto ai casi in cui la lesione si trova nel cervello. Anche per i bambini con ependimomi intracranici la chirurgia rappresenta la terapia di scelta e l’obbiettivo consiste nell’asportazione completa della neoplasia senza causare o aggiungere nuovi deficit al piccolo paziente. Tuttavia, a causa della frequente localizzazione in aree critiche, non sempre il tumore può essere rimosso totalmente. In questi casi si richiede l’applicazione di terapie adiuvanti quali radioterapia e chemioterapia, eventualmente in associazione.
La radioterapia viene comunemente utilizzata nei bambini con età superiore ai 3 anni, come trattamento adiuvante alla chirurgia, nel momento in cui non è stato possibile effettuare un’asportazione radicale della neoplasia oppure quando è stata posta diagnosi istologica di ependimoma maligno. Questo tipo di trattamento consiste nell’uso di radiazioni sul residuo tumorale sia esso intracranico che midollare. Il trattamento radiante può essere, al contrario, molto rischioso per un tessuto nervoso in corso di sviluppo, quale quello dei pazienti d’età inferiore ai 3 anni: questi bambini, infatti, se sottoposti a radioterapia, possono sviluppare, nel tempo, disturbi neurologici particolarmente gravi. Poiché però al momento attuale la radioterapia sembra solo allungare il periodo “libero” da recidiva della malattia ma non la sopravvivenza globale, in molti centri nel mondo si preferisce rinunciare a qualsiasi tipo di terapia adiuvante nei casi in cui l’asportazione del tumore è stata radicale. La chirurgia, infatti, rimane il presidio terapeutico più efficace anche in caso di recidiva.
La chemioterapia è un’alternativa per i bambini più piccoli o per quelli con tumori particolarmente resistenti e/o aggressivi. Questo trattamento consiste nella somministrazione di farmaci per via endovenosa o, in alcune circostanze, per via orale. L’obiettivo della chemioterapia è quello di ridurre il ritmo di crescita del tumore ottenendo il suo arresto o, addirittura, una regressione della massa neoplastica. In questo modo si può riuscire a controllare il tumore fino al momento più opportuno per l’esecuzione della radioterapia. Il trattamento con chemioterapici presenta una scarsa tossicità cerebrale rispetto alla radioterapia che si estrinsecano prevalentemente a livello renale, epatico e sul sistema emopoietico. Purtroppo i risultati relativi all’efficacia della chemioterapia sono contrastanti.
Nuove alternative in corso di sviluppo riguardano soluzioni farmacologiche più efficaci e l’utilizzo della radiochirurgia (intera dose di radiazioni convogliata sul tumore senza coinvolgere il tessuto cerebrale sano).
Proprio per le caratteristiche particolari di queste neoplasie ed il significato specifico della terapia chirurgica nel loro trattamento, sono grato all’Associazione “Ali di Scorta” per l’opportunità datami di analizzare la casistica della Neurochirurgia Infantile di questo Policlinico, con la speranza di potere ottenere informazione da trasferire nel mio Paese.

Dr Charles Kondageski
Neurochirurgia INC – Instituto de Neurologia\Neurochirurgia - Curitiba - Brasile






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28/07/2009 17:40

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LE CISTI ARACNOIDEE


Considerazioni generali
Il tessuto nervoso è delimitato da tre membrane che vengono accomunate da un’unica definizione: meningi cerebrali. La membrana più esterna, a contatto con la faccia interna della scatola cranica o della colonna vertebrale, è chiamata Dura Madre per la sua maggiore consistenza, quella più interna, assai sottile, subito al di sopra delle strutture nervose, Pia Madre. L’aracnoide è la membrana intermedia tra le due appena descritte e delimita all’esterno gli spazi dove si raccoglie il liquor cerebro-spinale che circola sulla superficie degli emisferi cerebrali. È una membrana assai sottile, trasparente, priva di vasi.
Le cisti aracnoidee sono oggi ritenute il risultato di un’alterazione minore dello sviluppo della membrana aracnoidea che ne determina la duplicazione o la separazione in due strati all’interno dei quali si verifica un progressivo accumulo di fluido con le caratteristiche del liquido cerebrospinale (LCS).
L’ipotesi malformativa è sostenuta, oltre che da evidenze morfologiche, da una serie di fattori, come la simile distribuzione negli adulti e nei bambini, la sporadica presenza in coppie di gemelli, la relazione topografica con i normali spazi cisternali, la presenza di anomalie congenite (specialmente l’agenesia del corpo calloso) o con sindromi note (in particolare la sindrome di Marfan).
Si tratta di lesioni rare, che possono svilupparsi, in qualsiasi regione dello spazio subaracnoideo sia cerebrale che spinale. Le cisti aracnoidee diventano sintomatiche quando esercitano un effetto massa sulle strutture nervose circostanti (ipertensione endocranica, deficit neurologici, ritardo dello sviluppo psicomotorio, epilessia) o quando interferiscono con la normale circolazione liquorale (idrocefalo secondario).
L’apparente aumentata incidenza riportata negli ultimi anni e la maggiore frequenza in età pediatrica sono da riferire all’efficacia delle attuali metodiche diagnostiche – ecoencefalografia, TAC e Risonanza Magnetica – nel riconoscimento precoce di queste lesioni e nella loro individuazione anche in soggetti esaminati per altri motivi, ad esempio per un’aspecifica macrocrania, per un generico ritardo psicomotorio o per un trauma cranico accidentale.
Le cisti aracnoidee sono quasi sempre sporadiche ed isolate; in due terzi dei casi è il sesso maschile ad essere coinvolto. La storia naturale di queste lesioni non è ben conosciuta: alcune cisti aracnoidee rimangono silenti per tutta la durata della vita, altre diventano sintomatiche dopo un periodo più o meno lungo di quiescenza, altre invece determinano sintomi e segni neurologici già nella primissima infanzia. Sono anche stati descritti casi eccezionali di cisti “scomparse” a seguito di una rottura spontanea della loro parete.
Le manifestazioni cliniche delle cisti aracnoidee dipendono ovviamente dalla sede e dalle dimensioni della lesione. A parte i segni aspecifici di un processo occupante spazio intracranico o intraspinale o di una dilatazione ventricolare secondaria, che accomunano le cisti aracnoidee a qualsiasi massa intratecale, sono stati descritti quadri tipici di alcune localizzazioni, come ad esempio, disturbi endocrinologici nel caso di cisti della regione chiasmatica, ematomi subdurali acuti a seguito di traumi cranici apparentemente insignificanti in pazienti con cisti della regione silviana, movimenti anomali e continui di va e vieni del capo dei bambini con cisti della regione soprasellare e del terzo ventricolo.
Il meccanismo alla base dell’espansione di una cisti aracnoidea è ancora oggetto di discussione. Scartata l’ipotesi di un gradiente pressorio in base alla sostanziale somiglianza del fluido contenuto all’interno della cisti con il LCS, le teorie patogenetiche più accreditate sono quelle di una produzione di fluido da parte delle stesse cellule che costituiscono la parete della cisti o di una comunicazione anatomica tra la cisti e gli spazi liquorali che permette il passaggio unidirezionale di fluido all’interno della cisti stessa, ma non la sua fuoriuscita, a seguito delle pulsazioni liquorali.
La TAC e la RM oltre a dimostrare la presenza della cisti forniscono anche criteri per valutare la dinamica del fluido in esse contenuto. La TAC si avvale della somministrazione di mezzo di contrasto nello spazio subaracnoideo o nella cisti per distinguere le lesioni “comunicanti” da quelle non comunicanti. La RM utilizza allo stesso scopo fasi di sequenza rapida capaci di cogliere il movimento pulsatile del LCS.
Oggetto di discussione è anche il trattamento richiesto da queste lesioni. Alcuni autori favoriscono infatti un atteggiamento conservativo in pazienti sicuramente asintomatici in cui la diagnosi di cisti aracnoidea è stato un reperto accidentale a seguito di esami neuroradiologici eseguiti per altri motivi; altri invece suggeriscono una terapia chirurgica anche in assenza di sintomi in base ad osservazioni di un rapido deterioramento delle condizioni cliniche in alcuni pazienti dopo episodi traumatici lievi. Nei casi dubbi, la registrazione prolungata della pressione intracranica può differenziare le cisti non associate ad alterazioni della dinamica liquorale da quelle che esercitano, per un aumento della pressione al loro interno o un ostacolo alla circolazione liquorale, una compressione sulle strutture nervose adiacenti. L’indicazione operatoria non viene invece discussa in caso di lesioni sintomatiche dove l’intervento chirurgico è considerato necessario per eliminare la pressione esercitata dalla cisti sulle strutture cerebrospinali circostanti e/o l’ostacolo da essa determinata nella circolazione liquorale. Le opzioni chirurgiche comprendono un’escissione diretta della cisti dopo craniotomia, una marsupializzazione della cisti nello spazio subaracnoideo o nei ventricoli crerebrali sotto diretto controllo visivo o attraverso l’utilizzazione di procedure stereotassiche od endoscopiche ed infine l’applicazione di sistemi derivativi intratecali (drenaggio del fluido cistico nel sistema ventricolare) o extratecali (drenaggio del fluido cistico nella cavità peritoneale, meno frequentemente, pleurica o nella circolazione ematica).
L’asportazione diretta della cisti appare la modalità più logica di trattamento poiché elimina la stessa causa della lesione; tale tipo di procedura è però associato in circa il 20% dei casi ad un rischio di recidiva o di persistenza di un’anomala condizione di circolazione liquorale in pazienti in cui sia associata un’incompetenza dello spazio liquorale. Una simile percentuale di recidiva può essere osservata dopo “marsupializzazione” della parete di una cisti aracnoidea nello spazio subaracnoideo generalmente a seguito della cicatrizzazione della stomia. Si deve però sottolineare che il rischio di un’obliterazione secondaria dopo marsupializzazione è trascurabile nei casi in cui la cisti può essere “aperta” nel sistema ventricolare. Il drenaggio della cisti con l’utilizzazione di sistemi derivativi offre un’alta percentuale di successo con il limite però della dipendenza del risultato dalla funzionalità del sistema derivativo stesso.
L’atteggiamento della nostra Neurochirurgia Pediatrica è quello di utilizzare un approccio chirurgico diretto con escissione della membrana cistica in tutti i casi in cui questo appare possibile cercando, là dove realizzabile, di creare nello stesso tempo un’ampia comunicazione con gli spazi cisternali o con i ventricoli cerebrali. Riserviamo invece gli interventi derivativi alle sole lesioni di difficile accesso chirurgico o ai soggetti che, dopo intervento chirurgico diretto, dimostrano un insufficiente assorbimento liquorale. La mortalità e la morbilità associate al trattamento chirurgico delle cisti aracnoidee sono praticamente trascurabili. Nessun decesso è stato osservato nella nostra casistica operatoria di oltre 200 casi; le complicazioni osservate sono state solo quelle legate ad un’alterata dinamica liquorale che hanno determinato in alcuni casi l’utilizzazione di procedure derivative liquorali in una seconda fase del trattamento.
Complicazioni
Il trattamento delle cisti aracnoidee dirette (craniotomia, asportazione delle membrane delle cisti, creazione di vie per la circolazione liquorale) presenta i rischi generali (infezioni, convulsioni postoperatorie, fistole liquorali) degli interventi chirurgici sull’encefalo. Quest’ultimo però non è generalmente interessato, ed i rischi di un suo danno chirurgico perciò sono estremamente bassi, poiché la cisti si sviluppa in uno spazio extracerebrale. Una possibile, in genere transitoria, complicazione è che il liquido, prima confinato nella cisti, si accumuli nello spazio tra l’aracnoide e la dura madre (spazio subdurale), continuando, per l’insufficiente assorbimento a tale livello, ad esercitare un effetto pressorio sul sottostante emisfero cerebrale. Ciò può comportare la necessità di un drenaggio temporaneo o persistente del fluido accumulato.
Distribuzione
Tre quarti delle cisti aracnoidee riscontrate in età pediatrica sono localizzati nel compartimento sopratentoriale, un quarto in quello sottotentoriale.
Tra le cisti sopratentoriali, la sede silviana è la più comune rappresentando un terzo dei casi totali; le cisti sellari e quelle della convessità corrispondono ognuna al 15% delle lesioni; quella interemisferica all’8% e quella quadrigeminale al 5%. Delle cisti sottotentoriali (23% dei casi totali) la grande maggioranza (17,5% dei casi totali) è localizzata in sede mediana, sopra o retrovermiana, il 5% al di sopra degli emisferi cerebellari, lo 0,5% in sede retroclivale.Caratteristiche specifiche in relazione alla localizzazione


a. Cisti della scissura silviana (cisti temporali)
La scissura di Silvio rappresenta la localizzazione più frequente delle cisti subaracnoidee sopratentoriali (metà dei casi riscontrati nell’adulto, un terzo dell’età pediatrica). I maschi sono interessati 3 volte più delle femmine ed il lato sinistro più del destro.
Più frequentemente di piccolo o medio volume, queste cisti possono anche raggiungere grandi dimensioni determinando un caratteristico rigonfiamento della teca cranica sovrastante in sede temporale. Clinicamente, oltre alla deformità cranica, le manifestazioni cliniche includono cefalea, lieve proptosi ed epilessia. Nel 10% dei casi può essere osservato un ritardo mentale. Il maggiore rischio legato a questo tipo di cisti è quello di un’emorragia da lacerazione dei fini vasi presenti sulla parete delle cisti che possono andare incontro a facile rottura privi come sono di un adeguato tessuto di sostegno. In soggetti con epilessia, un intervento chirurgico precoce è spesso associato alla scomparsa delle manifestazioni comiziali.


b. Cisti della regione sellare
Delle due varietà di questo tipo di cisti, quella endosellare e quella soprasellare, solo la seconda è riscontrabile in età pediatrica. La maggior parte di queste cisti è trattata in bambini al di sotto dell’anno di vita, a seguito di un riconoscimento precoce determinato dalla associata macrocrania ed idrocefalo. Le cisti soprasellari possono espandersi in tutte le direzioni: l’idrocefalo si realizza in genere per l’ostruzione della parte anteriore del 3’ ventricolo e dei forami di Monro. I nervi ottici ed il chiasma sono stirati in circa un terzo dei casi con possibile danno della funzione visiva.
Lo stiramento o più raramente la rottura del peduncolo ipofisario e la compressione del talamo, del tuber cinereum e dei corpi mammillari sono responsabili della sintomatologia endocrinologica associata: ritardo di crescita, pubertà precoce isosessuale, ipopituitarismo. Tipica di queste cisti è la sindrome del “capo di bambola” movimenti ritmici ma irregolari ed involontari del capo (e a volte del tronco) che si realizzano in direzione antero-posteriore due o tre volte al secondo. Nei casi associati ad idrocefalo, tra le manifestazioni cliniche può essere spesso evidenziata un’atassia della marcia.


c. Cisti delle convessità cerebrali
Si tratta di lesioni che variano da pochi millimetri di diametro a cisti che ricoprono tutto l’intero emisfero dislocandolo medialmente. In questa seconda evenienza, il quadro clinico può restare a lungo sorprendentemente povero, limitato alla sola macrocrania o asimmetria del cranio. Anche le cisti focali tendono nel bambino a restare asintomatiche a lungo determinando solo un caratteristico assottigliamento e rigonfiamento localizzato della teca cranica sovrastante. Ciò distingue queste lesioni dalle analoghe cisti dell’adulto che quasi sempre si associano invece ad epilessia.


d. Cisti interemisferiche
Le cisti aracnoidee che si sviluppano tra i due emisferi cerebellari possono svilupparsi a livello del terzo anteriore del corpo calloso, del terzo medio o del terzo posteriore o impedire per intero lo sviluppo di questa commisura causando quindi un’apparente agenesia. In realtà più che di una distruzione si tratta di una dislocazione delle fibre che costituiscono il corpo calloso come suggerito dall’assenza di deficit dello sviluppo psicomotorio. Il migliore trattamento è la marsupializzazione di queste cisti nel sistema ventricolare.

e. Cisti della regione della lamina quadrigemina
Le cisti localizzate a livello della grande vena di Galeno e dell’incisura tentoriale tendono a dare precocemente segni neurologici e di ipertensione endocranica per il limitato spazio utilizzabile per la loro crescita. Sono stati descritti in associazione a queste lesioni alterazioni di movimenti oculari, dello sguardo coniugato, delle pupille, atassia, deficit motori a carico degli arti inferiori, epilessia e sordità. Nella maggior parte dei casi la diagnosi è ottenuta in età pediatrica, anche se può essere difficile differenziare le cisti aracnoidee di questa regione da altre anomalie cistiche acquisite o congenite, come, ad esempio, dilatazione della cisterna ambiens o cisti glio-ependimali.


f. Cisti sottotentoriali mediane
La presenza di un quarto ventricolo, compresso e dislocato anteriormente o superiormente distingue le cisti aracnoidee vermiane da altre malformazioni complesse come la cisti di Dandy-Walker, la “Dandy-Walker variant”, le “Blake’s pouch”, o le megacisterne che richiedono un approccio completamente differente. Le manifestazioni cliniche nel primo anno di vita sono essenzialmente macrocrania, ritardo delle acquisizioni, segni di ipertensione endocranica per l’idrocefalo ostruttivo secondario. In casi eccezionali una cisti aracnoidea sottotentoriale si può sviluppare all’interno del IV ventricolo: in tal caso il quadro clinico è di solito sovrapponibile a quello di un idrocefalo a pressione normale.


g. Cisti intraspinali
Relativamente rare a sviluppo intra o extra-durale, dipendono da un’anomala proliferazione o distribuzione delle trabecule che attraversano lo spazio subaracnoideo in epoca fetale oppure rappresentano una dilatazione del septum posticum che divide lo spazio subaracnoideo posteriore spinale a livello cervicale e dorsale. La sintomatologia clinica è variabile, ma in genere dominata da dolore locale o a distribuzione radicolare, disestesia, deficit motori e, in circa metà dei casi, disturbi dello sfintere vescicale. In circa un sesto dei casi l’andamento clinico è intermittente, con periodi di remissione che ricordano le malattie demilienizzanti. Poiché tali cisti sono spesso riconosciute solo tardivamente non è raro dimostrare anomalie vertebrali associate, soprattutto di tipo cifoscoliotico, al momento della diagnosi.





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Meccanismi di difesa e informazioni mediche in NCH infantile
(Dr.ssa Simona Di Giovanni)


La scoperta di una malattia potenzialmente mortale al proprio figlio induce i genitori a ricercare ciò che precedentemente era quasi impensabile, “mio figlio può morire: perché è capitato a me?”. Spesso nello sforzo di darsi una ragione si cercano i motivi di una sorta di nemesi del fato per qualche precedente colpa. Terapie assunte nel periodo antecedente o contemporaneo alla gravidanza oppure problemi personali o relazionali, ritornano come “scheletri nell’armadio”, come se avessero potuto contaminare la vita del proprio figlio.
Il sentimento di “partecipazione” alla malattia del bambino rende questa esperienza doppiamente dolorosa provocando una dispersione nel pozzo del passato di energie che invece sarebbero necessarie per affrontare la malattia.
La paura della morte conseguente alla consapevolezza della gravità della malattia costituisce una minaccia, che viene evitata attraverso meccanismi di difesa. Le difese inducono una sorta di anestesia, per evitare o sopportare il continuo confronto con la morte attraverso una fuga dal piano emotivo e/o cognitivo e dell’agire. Se è impossibile “non sapere”, almeno “non sentire” può apparire istintivamente una via di fuga più accettabile per salvaguardare uno pseudo-equilibrio.
Le reazioni emotive dei genitori possono quindi apparire incongrue alla gravità dell’informazione comunicata dal medico. Tali incongruità sono dovute proprio alla messa in atto di meccanismi di difesa cioè di risposte automatiche di cui spesso si è inconsapevoli. Le difese possono svolgere una funzione adattativa o difensiva secondo la loro gravità, la loro rigidità e il contesto nel quale si verificano. Per esempio, l’attenzione selettiva può essere utilizzata sia a livello adattivo per favorire la concentrazione, sia a livello difensivo in funzione di diniego.
I meccanismi di difesa agiscono influenzando la rielaborazione dell’informazione del soggetto, tanto da poter distorcere percezioni, falsificare ricordi e bloccare azioni. Le difese più facilmente riscontrabili in coloro che si trovano di fronte ad una minaccia di vita sono:
Negazione. Il soggetto nega attivamente che un sentimento, un comportamento o un’intenzione (riguardante il passato o il presente) sia stata o sia presente, anche se l’evidenza afferma il contrario. Questa difesa consente di non ammettere o di non prendere coscienza di un’idea o di un sentimento che ritiene potrebbe causargli conseguenze negative (come vergogna, rammarico o altri affetti dolorosi). Il soggetto è del tutto inconsapevole dei pensieri e delle emozioni inerenti alla sua esperienza. E’ proprio il diniego o la negazione ad essere la difesa che compare comunemente in pazienti gravemente malati con una funzione protettiva soprattutto nella prima fase di adattamento alla minaccia di morte. E’ una sorta di facciata che permette di sopravvivere allontanando da sé la vera percezione dei sentimenti e delle nozioni. Nei genitori sono frequenti, esempio, minimizzazioni dei deficit o del ritardo cognitivo o motorio del bambino.
Rimozione E’ una difesa che protegge il soggetto dalla consapevolezza di ciò che prova o ha provato in passato. A differenza della negazione dove sia l’idea che l’affetto sono al di fuori della consapevolezza, nella rimozione gli aspetti emotivi sono chiaramente presenti e percepiti mentre quelli cognitivi restano al di fuori della coscienza. Esempi di rimozione sono, uno o due lapsus linguae mentre si dice qualcosa che poi si nega o che è l’opposto di ciò che si afferma di voler dire, oppure il dimenticare più volte quanto sta dicendo nel mezzo di una discussione, dimenticare particolari significativi di eventi traumatici. Nel contesto medico, i genitori possono “dimenticare” i rischi dell’intervento del bambino dei quali sono stati informati con precisione dal chirurgo.
Dissociazione L’individuo affronta conflitti emotivi e stress interni o esterni attraverso un’alterazione temporanea del proprio stato psichico o della propria identità, che gli consente di sentirsi meno colpevole o minacciato.Un particolare affetto o impulso vissuto come troppo minaccioso, troppo conflittuale, o troppo ansiogeno viene reso inconscio e contemporaneamente espresso attraverso un’alterazione della coscienza. Nel contesto medico, una lunga degenza del proprio figlio, ad es. in condizione di coma vigile, obbliga un costante contatto con la paura della morte. Il genitore può parlare della malattia del bambino con “indifferenza”, dando al medico il messaggio affettivo che l’evento in questione sembra quasi non essere stato registrato nel suo significato, pur non negandone l’esistenza.
Anticipazione L’uso di questa difesa permette all’individuo di mitigare gli effetti delle tensioni o dei conflitti futuri. Essa implica la capacità di tollerare l’ansia che si manifesta quando il soggetto immagina quanto possa essere angosciante una situazione futura. Attraverso tale prova affettiva, ad esempio, “come mi sentirò quando morirà mio figlio” e la pianificazione delle risposte future, il soggetto diminuisce gli aspetti angoscianti del futuro fattore stressante. Sono i genitori che partecipano attivamente al funerale di un bambino conosciuto durante la malattia, mettendosi al primo banco accanto al genitore del bambino morto.
Aggressione passiva. E’ caratterizzata dal modo indiretto, velato e passivo con il quale vengono espressi l’ostilità e i sentimenti di rancore nei confronti degli altri. La persona che fa uso di questa difesa ha imparato ad attendersi una punizione, una frustrazione o un rifiuto se esprime bisogni o sentimenti direttamente a qualcuno che ha potere o autorità su di lui. Il soggetto si sente impotente e pieno di risentimento. Le richieste di attenzione, di aiuto o il desiderio di esprimere sentimenti sono presenti ma non vengono verbalizzati o sono verbalizzati troppo tardi, mentre il risentimento viene espresso tramite l’inettitudine, i ritardi ecc. come mezzo per irritare gli altri. Questo meccanismo di difesa è molto frequente nei genitori del bambino malato rispetto alla propria famiglia d’origine. Ci sono genitori che non hanno mai “permesso” loro di ricevere una visita in ospedale anche a seguito di lunghi ricoveri, per poi a tempo debito lamentarsene
Scissione. L’individuo affronta conflitti emotivi e stress interni o esterni considerando se stesso o gli altri come completamente buoni o completamente cattivi, non riuscendo a integrare le caratteristiche positive e negative di sé e degli altri in immagini coese; spesso lo stesso individuo sarà alternativamente idealizzato e svalutato. I genitori che adottano tale difesa possono mutare rapidamente l’opinione del proprio medico lodandolo o biasimandolo sulla base di informazioni parziali o incomplete.
Ipocondria. Comporta l’uso ripetuto di una o più lamentele nelle quali il soggetto chiede apparentemente aiuto. Contemporaneamente, poi, il soggetto, rifiutando suggerimenti, consigli o qualsiasi cosa gli altri gli offrano, esprime sentimenti nascosti di ostilità e risentimento. E’ dunque una difesa contro la rabbia che il soggetto prova ogni volta che sente la necessità di dipendere emotivamente dagli altri. La rabbia sorge dalla convinzione, o spesso dall’esperienza passata, che nessuno soddisferà realmente i suoi bisogni. E’ il tipico soggetto che si lamenta sempre con il medico o inscena una pantomima su tutti i suoi acciacchi fisici eludendo i tentativi di indagare a fondo un disturbo, di affrontarlo e capirlo efficacemente e contemporaneamente si lamenta della mancanza di aiuto. Oppure è il soggetto che si lamenta spontaneamente di come gli altri (medici, parenti) non si preoccupino realmente o abbiano di fatto peggiorato il problema, anche quando il suo resoconto dimostra il contrario.
In questi casi, il medico dopo aver eseguito un difficile e delicato intervento verrà investito da tutta una serie di preoccupazioni del genitore su aspetti evidentemente secondari, tralasciando gli importanti risultati raggiunti.
Fantasia L’individuo affronta conflitti emotivi e stress passando tempi eccessivi a sognare ad occhi aperti, evitando così le relazioni umane, un agire più diretto ed efficace o la soluzione dei problemi. La fantasia diventa un mezzo per non affrontare o risolvere problemi esterni o per esprimere e soddisfare i propri sentimenti e desideri; permette di ottenere una qualche transitoria e sostitutiva gratificazione fantasticando una soluzione a un conflitto con il mondo reale. Il soggetto, mentre utilizza la fantasia, si sente bene e allontana momentaneamente la convinzione di essere impotente; infatti mentre fantastica può essere attiva la convinzione opposta di essere onnipotente, di poter fare qualsiasi cosa. Nel contesto medico, sono frequenti “innamoramenti” da parte delle bambine nei confronti del medico curante e chiacchierate serali “goliardiche” tra le mamme.
L’incapacità di accettare la morte del proprio figlio è stata paragonata all’incapacità da parte dei pazienti psicotici di accettare la propria morte. Entrambi infatti hanno bisogno di creare un’area di illusione parziale che ha in comune con il delirio psicotico il bisogno di mantenere un’illusione di immortalità e di vivere una condizione di diversità dagli altri malati, ma si differenzia dal delirio, per la continua e stretta interazione con l’area vicina alla realtà (in quest’ultimi si parla infatti di area di illusione totale). E’ quindi priva delle estreme distorsioni che connotano il delirio e non diviene mai sostitutiva della realtà; piuttosto, consente di affrontare meglio quest’ultima.
Il bisogno del genitore è dunque di poter avere un’area di illusione, nella quale e per mezzo della quale evitare l’impatto diretto con l’evento della morte. In quest’area di illusione parziale coesistono entrambe le componenti: quella che sa che la morte è imminente e quella che s’illude di poter avere ancora tempo di vivere e di fare le cose che non ha fatto nel passato. L’area illusionale si pone quindi come una delle risorse più valide per mediare con una realtà così drammatica, e al tempo stesso diviene il mezzo con cui un genitore può accettare di identificare le sue risorse, per trascorrere il tempo che rimane al proprio figlio nel modo più costruttivo possibile.
L’illusione di essere eterno, quando interagisce costantemente con la realtà, diviene un rifugio consolatorio dalla realtà dell’impotenza e della frustrazione e permette di tollerare la propria reale situazione di perdita. Diviene, di fronte alla morte, un patrimonio di risorse interne ed emotive, che si contrappone all’irreparabile, ovvero la morte nel presente o nel futuro, gli errori, i fallimenti, le colpe, le occasioni perdute, consentendo di dar valore e significato a ciò che di positivo e di possibile esiste anche di fronte alla realtà più tragica.




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CANCRO AL SENO




Nuovi dati epidemiologici preoccupanti sul cancro al seno
martedì 7 luglio 2009

Più donne italiane malate di cancro al seno, rispetto alle stime ufficiali? È quanto emerso da un recente studio del CROM sul territorio nazionale.

Nuovi dati sulla diffusione del cancro al seno nella popolazione femminile italiana sono emersi da un recente studio condotto dal Centro di Ricerche Oncologiche di Mercogliano (CROM), affiliato alla Fondazione Pascale di Napoli, e pubblicato sul Journal of Experimental and Clinical Cancer Research.

Le stime descrivono uno scenario allarmante e inaspettato, in cui le cifre reali sono risultate sorprendentemente maggiori rispetto ai dati ufficiali. Il presidente della Sbarro Health Research Organization di Filadelfia, Antonio Giordano, che ha guidato l'équipe di studiosi, ha così motivato tale differenza: "Finora le uniche informazioni disponibili sui numeri del cancro al seno nella Penisola si basavano su una valutazione indiretta, sviluppata sulla base dei dati di mortalità Istat e di sopravvivenza dello studio Eurocare".
Giordano e la sua squadra si sono invece distinti per un approccio alla ricerca basato sul conteggio 'a tappeto' dei casi di tumore al seno su territorio nazionale. Passando in rassegna le schede di dimissione ospedaliera (SDO) del Ministero della Salute, sono risaliti al numero esatto di interventi chirurgici demolitivi (mastectomie) o conservativi (quadrantectomie) eseguiti dal 2000 al 2005.

Da un totale di 268.892 interventi per tumore alla mammella, fra mastectomie (100.745) e quadrantectomie (168.147), è emerso che:
nel solo 2005 i nuovi casi di cancro al seno sono stati 47.200 (+26,5% rispetto ai dati ufficiali che si fermavano ad una stima di 37.300);
dal 2000 al 2006 il numero di nuovi tumori al seno si attesta su valori sempre superiori a 40 mila all'anno, con un trend in aumento: erano 41.608 nel 2000 e in 6 anni si è registrata una crescita del 13,8%;
il maggiore incremento percentuale del numero di nuovi tumori al seno si riscontra nelle donne di età compresa tra 25 e 44 anni (quasi 77 donne ogni 100 mila in questa fascia d'età, con un aumento del +28,6% in sei anni).

Come spiegarsi questo aumento così cospicuo e, per così dire, in controtendenza?
Domenico Amoroso (Direttore di Oncologia, Ospedale Versilia, Lido di Camaiore, Vice-presidente della LILT - Lega Italiana Contro i Tumori) nota che "a fronte di un aumento dell'incidenza del tumore al seno, principale neoplasia del sesso femminile nei paesi occidentali, si è osservata, dagli anni 2000, una diminuzione della mortalità, legata non solo alla tempestività della diagnosi (sia per i programmi di screening europei, sia per una maggiore consapevolezza della donna), ma anche all'efficacia delle terapie oggi disponibili e alla riduzione dell'uso di estro-progestinici".
Riguardo all'incremento di procedure chirurgiche, soprattutto nelle donne di età inferiore a 45 anni e in quelle di età superiore a 75, Amoroso evidenzia come tali fasce anagrafiche siano le stesse escluse dallo screening mammografico (riservato alle donne fra i 50 e i 70 anni), mentre gli esperti a livello internazionale suggeriscono che i programmi di screening siano estesi fino ai 74 anni e alla fascia anagrafica tra i 40 e 49. "Non da ultimo - conclude Amoroso - bisogna tenere conto dei costi, non indifferenti, legati all'implementazione di eventuali programmi di prevenzione in queste fasce di età ed al maggiore carico di lavoro delle strutture sanitarie, problemi per i quali è auspicabile un'attenzione particolare da parte delle autorità sanitarie del nostro Paese".

Sulla superiorità della stima corretta delle SDO rispetto a quelle di ISTAT ed Eurocare, su cui sono stati basati gli stessi dati forniti dall'Istituto Superiore di Sanità, Amoroso sottolinea la necessità che la corretta valutazione sia applicata anche agli anni successivi al 2005 suggerisce e che i programmi di screening mammografico siano estesi fino ai 74 anni e alla fascia anagrafica tra i 40 e 49.

Carlo Tondini (Primario di Oncologia, Ospedali Riuniti di Bergamo) invita alla cautela, in particolare riguardo ai dati che indicherebbero l'aumento dell'incidenza del tumore al seno nelle donne giovani, sui quali non esistono ancora certezze.
Tuttavia, sottolinea Tondini, "il timore è quello di un'anticipazione di casi in età giovanile condizionata anche dagli stili di vita attuali delle donne occidentali, basati su un'alimentazione particolarmente ricca in grassi e ad alto contenuto calorico".
Secondo Tondini, inoltre, non andrebbero trascurati, nella riconsiderazione del rischio per le donne fino ai 30 anni, i fattori di predisposizione genetica, a volte ereditati. Con l'obiettivo di capire quali sono a rischio precoce e meritano strategie di sorveglianza fin da un'età giovanile.

giulia volpe

Fonte:

Piscitelli P, Santoriello A, Buonaguro FM. Incidence of breast cancer in Italy: mastectomies and quadrantectomies from 2000 to 2005. Journal of Experimental & Clinical Cancer Research, 19 giugno 2009; 28:86.






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01/08/2009 08:43

TUMORE AL TESTICOLO


CONOSCERE LA MALATTIA




Cos'è il tumore ai testicoli
I testicoli sono gli organi in cui nell'uomo avviene la formazione degli spermatozoi e di alcuni ormoni maschili (hanno una funzione analoga a quella delle ovaie nella donna).

I testicoli sono due, contenuti nello scroto, una borsa di pelle situata direttamente sotto il pene.

Il cancro del testicolo è una forma rara di tumore maschile, in cui le cellule tumorali si formano a partire dai tessuti di uno o di entrambi i testicoli.

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Quanto è diffuso

I tumori del testicolo sono circa l'1 per cento del totale e il 3-10 per cento di quelli che colpiscono l'apparato urogenitale maschile.

Secondo la rete di sorveglianza epidemiologica degli Stati Uniti, negli ultimi 30 anni c'è stato un aumento della frequenza di tumore testicolare di circa il 45 per cento, ma la mortalità è diminuita del 70 per cento, a testimonianza dei significativi progressi raggiunti nella terapia di questo specifico tumore: nel 1970 il 90 per cento dei pazienti con cancro testicolare moriva, mentre dagli anni novanta, grazie all'introduzione di nuovi farmaci, la situazione si è invertita, e oggi il 90 per cento degli uomini con cancro diffuso possono essere curati.

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Chi è a rischio
Le cause del cancro al testicolo restano sconosciute, anche se diversi fattori di rischio possono favorirlo.

Tra questi il principale è il criptorchidismo, cioè la mancata discesa nello scroto di uno dei testicoli che resta nell'addome o nell'inguine.
Questa condizione aumenta le probabilità di trasformazione maligna delle cellule fino a 40 volte rispetto alla popolazione generale, con un rischio variabile a seconda della sede del criptorchidismo: elevata se il testicolo è nell'addome e più bassa se è nell'inguine.
Le probabilità si riducono ulteriormente se l'anomalia viene corretta chirurgicamente prima dei sei anni di età.

Un altro importante fattore di rischio è la sindrome di Klinefelter, un difetto dei cromosomi.

Infine, gli uomini che hanno avuto un tumore al testicolo hanno dal 2 al 5 per cento di probabilità di sviluppare lo stesso tumore nell'altro testicolo nei 25 anni succesivi alla diagnosi.

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Tipologie
I tumori testicolari si dividono in due tipi: seminomi e non seminomi.

I primi sono circa la metà dei casi e consistono nella trasfomazione maligna delle cellule germinali, cioè di quelle che danno origine agli spermatozoi; sono frequenti nella quarta decade di vita e si associano spesso a una variante che coinvolge anche cellule non seminali (in questo caso si parla di forme germinali miste).

Gli altri, i non seminomi, includono quattro differenti forme: i carcinomi embrionali, i coriocarcinomi, i teratomi e i tumori del sacco vitellino, quella parte associata all'embrione che contiene materiale di riserva per il suo nutrimento.

La prognosi e il trattamento sono diversi a seconda del tipo di tumore.

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Sintomi
Di solito il tumore esordisce con un nodulo, un aumento di volume, un gonfiore o un senso di pesantezza del testicolo .

Per questo è importante che gli uomini imparino a fare l'autoesame del testicolo (così come le donne fanno l'autoesame del seno) palpando l'organo di tanto in tanto per scoprire in tempo eventuali anomalie.

Anche la brusca comparsa di un dolore acuto al testicolo è tipico di questo tumore, assieme a un rapido aumento del volume che può essere provocato da una emorragia all'interno del tumore. Viceversa, anche il rimpicciolimento del testicolo può essere un segnale di esordio della malattia.

Infine, è importante che i genitori facciano controllare i bambini dal pediatra di fiducia, poichè una correzione dell'eventuale discesa incompleta del testicolo entro il primo anno di vita riduce il rischio di cancro e facilita la diagnosi precoce del tumore.

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Prevenzione
Per i tumori germinali del testicolo non esistono programmi di prevenzione organizzati.
Gli stessi marcatori tumorali quali alfafetoproteina e beta-HCG (ovvero sostanze che si possono trovare nel sangue in presenza di questo tipo di cancro), utili per la conferma della diagnosi e per seguire nel tempo l'evoluzione della malattia, non servono nella diagnosi precoce.

Data tuttavia la giovane età della popolazione a rischio, va sottolineata l'importanza dell'autopalpazione del testicolo, con attenzione verso qualsiasi modifica dell'anatomia o della forma dello scroto.

Adulti e ragazzi dovrebbero conoscere dimensioni e aspetto dei loro testicoli, esaminandoli almeno una volta al mese dopo un bagno caldo, cioè con il sacco scrotale rilassato. Ogni testicolo andrebbe esaminato facendolo ruotare tra pollice e indice alla ricerca di noduli anomali, che dovrebbero essere immediatamente riferiti al medico. Questo accorgimento può consentire una diagnosi precoce.

È importante insegnare ai ragazzi questa manovra anche perché spesso l'unica visita a cui vengono sottoposti e che prevede l'esame dei testicoli è quella per la leva, che è stata abolita con la decadenza della leva obbligatoria.

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Diagnosi
La diagnosi del tumore viene effettuata tramite una ecografia dello scroto e il dosaggio di alcuni marcatori, cioè sostanze presenti nel sangue prodotte dalle cellule tumorali o indotte dalla presenza del tumore. Tali marcatori sono la alfa-fetoproteina e la beta-HCG.

Dopo la conferma sarà necessario asportare il testicolo per esaminare il tumore nella sua estensione locale e sottoporre il paziente a ulteriori accertamenti per verificare se le cellule tumorali si sono diffuse ad altre parti dell'organismo.

Ciò è importante per la scelta del trattamento più indicato.

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Evoluzione
Il cancro del testicolo è classificato nei seguenti stadi:

stadio I, con tumore circoscritto al testicolo;

stadio II, con tumore diffuso ai linfonodi dell'addome;

stadio III, quando il tumore si è diffuso oltre ai linfonodi anche con metastasi a distanza in organi quali polmoni e fegato.

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Come si cura
Grazie ai progressi degli ultimi anni, oggi 9 casi di tumore del testicolo su 10 si curano con successo.

Quando il tumore è diagnosticato in fase iniziale ed è limitato al testicolo, la chirurgia con o senza radioterapia è la prima scelta. Nelle forme più avanzate, invece, è necessario ricorrere alla chemioterapia, considerando che questo tipo di tumore è molto sensibile agli effetti dei farmaci, con cui si ottengono quindi ottimi risultati.

Con i farmaci guarisce anche il 60-70 per cento dei casi di malattia già disseminata, a cui va aggiunto un 10-20 per cento di pazienti guariti definitivamente dopo l'asportazione di tumori rimpiccioliti precedentemente con la chemioterapia. In entrambi i casi, comunque, è necessario farsi controllare molti anni dopo la cura.

In pratica, nella malattia in fase iniziale è indicata l'asportazione chirurgica del testicolo e del funicolo spermatico (sia nei seminomi sia nelle forme non seminomatose).

Nello stadio I per i seminomi è opportuno completare il trattamento con una radioterapia. Negli stadi più avanzati, invece, con metastasi ai linfonodi dell'addome oppure in altri organi, la chemioterapia consente un buon controllo della malattia. Dopo l'asportazione del testicolo viene inserita una protesi che consente di mantenere l'aspetto estetico dello scroto.







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